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Leader impensabili

Il miracolo di Sleepy Zinga

Claudio Cerasa

La battaglia sul Mes, la legge elettorale, il crollo del M5s, la vittoria sull’Europa, la divisione del centrodestra, il maloox a Salvini e il futuro al governo. Come ha fatto Zingaretti a superare la stagione semaforo e a diventare un leader tra i due mondi

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In una vecchia e folgorante imitazione di Romano Prodi fatta qualche anno fa da Corrado Guzzanti, l’allora capo dell’Ulivo venne rappresentato dal comico romano come se fosse qualcosa di simile a un formidabile semaforo politico. “Io – diceva Guzzanti nei panni di Prodi – sono sempre uguale: io sono l’unico leader europeo senza metabolismo, perché sto fermo. Sì, andavo pure in bicicletta, ma nessuno ci ha fatto caso: mica pedalavo, stavo fermo. Questo è il senso dell’Ulivo: l’Ulivo è un albero, mica va a spasso. E io sto fermo, aspetto, non mi muovo. Perché verrà anche il suo bel momento che dovran tornare qui, da me, proprio qui alla stasione dove mi han mandato”. Lo sketch di Corrado Guzzanti è forse il migliore fotogramma per provare a raffigurare quella che è la condizione vissuta oggi da un leader di partito che non nasconde di volersi ispirare al modello Prodi, e il leader in questione risponde al nome di Nicola Zingaretti, raffigurato spesso nei retroscena come se fosse eternamente immobile, incessantemente fermo, perennemente statico. Un semaforo.

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In una vecchia e folgorante imitazione di Romano Prodi fatta qualche anno fa da Corrado Guzzanti, l’allora capo dell’Ulivo venne rappresentato dal comico romano come se fosse qualcosa di simile a un formidabile semaforo politico. “Io – diceva Guzzanti nei panni di Prodi – sono sempre uguale: io sono l’unico leader europeo senza metabolismo, perché sto fermo. Sì, andavo pure in bicicletta, ma nessuno ci ha fatto caso: mica pedalavo, stavo fermo. Questo è il senso dell’Ulivo: l’Ulivo è un albero, mica va a spasso. E io sto fermo, aspetto, non mi muovo. Perché verrà anche il suo bel momento che dovran tornare qui, da me, proprio qui alla stasione dove mi han mandato”. Lo sketch di Corrado Guzzanti è forse il migliore fotogramma per provare a raffigurare quella che è la condizione vissuta oggi da un leader di partito che non nasconde di volersi ispirare al modello Prodi, e il leader in questione risponde al nome di Nicola Zingaretti, raffigurato spesso nei retroscena come se fosse eternamente immobile, incessantemente fermo, perennemente statico. Un semaforo.

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Il leader del Pd offre raramente l’occasione di essere rappresentato come un fantasista della politica e fino a oggi la caratteristica della sua leadership è stata quella di mettere la logica dell’unione su un piedistallo più alto rispetto alla logica dello strappo, al punto da essere arrivato ad accettare in questi mesi alcune scelte che in cuor suo il segretario avrebbe evitato (un anno fa Zingaretti avrebbe preferito il voto al governo con il M5s e sempre un anno fa Zingaretti cercò di evitare nella logica del governo di discontinuità il bis di Giuseppe Conte). Eppure, negli ultimi giorni, in modo improvviso, la rappresentazione del leader statico ha smesso di essere aderente alla realtà e d’un tratto sleepy Zinga ha scelto di cambiare strategia anche per provare a capitalizzare alcuni risultati raggiunti dal suo partito. Il cambio di strategia lo si registra mettendo in fila tre fatti, due dei quali sono alla luce del sole: la battaglia combattuta dal leader del Pd sul Mes (caro M5s, poche storie, prendiamo i soldi del Mes, perché qui comandiamo noi) e la battaglia portata in queste ore in Parlamento sulla legge elettorale (caro Renzi, poche storie, avevamo promesso di arrivare al referendum sul taglio dei parlamentari con una legge proporzionale). Il terzo fatto, non alla luce del sole, è legato a un’idea che si può spiegare allargando l’inquadratura di questa legislatura: rafforzare il governo dando vita a un esecutivo che sia all’altezza della sfida per il futuro lanciata dall’Europa con il suo piano di rinascita. Il leader del Pd, in altre parole, non sarebbe contrario a entrare direttamente nel governo, con una posizione di peso all’altezza del suo ruolo, ma a prescindere da quella che sarà la decisione del governatore della regione Lazio c’è una verità che anche chi non ama Zingaretti avrebbe forse il dovere di squadernare. E cioè che sedici mesi dopo il suo arrivo alla guida del Pd e undici mesi dopo la scelta del Pd di dar vita a un governo con il M5s, ci sono alcuni risultati rivendicabili.

   

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Un anno fa, la distanza tra la Lega e il Pd era di 12 punti, oggi la distanza tra la Lega e il Pd, secondo un sondaggio Ixè, è di 1,9 punti, nonostante la doppia scissione (Renzi prima e Calenda poi). Un anno fa, l’Italia rischiava di essere rappresentata in Europa da un filotto di politici euroscettici (il commissario europeo, nella spartizione dei posti tra M5s e Lega, spettava alla Lega) e un anno dopo il cambio di governo la discontinuità che è mancata a Palazzo Chigi (ma Conte è riuscito nel miracolo di essere discontinuo da se stesso) si è notata eccome in alcune posizioni chiave occupate dal Pd in Europa: il ministro dell’Economia (Gualtieri) è del Pd, il ministro per gli Affari europei (Amendola) è del Pd e il commisario europeo all’Economia (Gentiloni) è sempre del Pd. Un anno fa, prima che l’Europa dimostrasse di essere pronta per diventare grande, il centrodestra era compatto dietro alla leadership di Salvini mentre oggi gli stessi alleati di Salvini (FdI e FI) non fanno mistero di voler superare la leadership attuale. E con una mobilità diversa da quella del semaforo il leader del Pd è riuscito a fare ciò che un anno fa sarebbe parso impensabile: rendere di fatto il suo partito equidistante sia dal M5s (con cui il Pd governa) sia da Forza Italia (con cui il Pd governerebbe volentieri). E chissà quante volte nei prossimi mesi vedremo scene come quelle registrate ieri alla Camera, dove Pd, M5s e FI si sono ritrovati a votare insieme un emendamento di Enrico Costa, responsabile Giustizia di FI, relativo alla legge sull’omofobia, con cui il Parlamento ha escluso le opinioni da qualsiasi possibile incriminazione all’interno del ddl Zan.

   

Un anno fa sarebbe stato difficile immaginare scene come queste. Ma sarebbe stato difficile anche immaginare di avere un M5s spappolato come lo è oggi, rappresentato più da Giuseppe Conte (premier europeista) che da Alessandro Di Battista (e dal suo amico Gianluigi Paragone). La leadership di Zingaretti non è la leadership dei sogni ma è una leadership che ha prodotto risultati tangibili. E la traiettoria imboccata dal segretario ha contribuito a mettere il Pd di fronte a un dato di realtà: in un Parlamento senza bussola, con un partito di maggioranza politicamente liquefatto, il Pd, nonostante i gravi deficit sui temi del lavoro e della giustizia, è l’unico partito che ha un’agenda, per quanto questa sia esile e fragile. E arrivati al punto in cui si trova oggi il Partito democratico, che con il 18 per cento in Parlamento di fatto è diventato il dominus del governo, è comprensibile che il segretario sia consapevole che farsi dettare l’agenda da un movimento che quasi non esiste più è un’opzione che può permettersi solo un partito che non ha altra ambizione se non quella di travestirsi da semaforo. E’ tempo di un Recovery Pd.

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