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L’Europa, l’Italia e la scrematura delle balle

Claudio Cerasa

L’interventismo europeo ha permesso di archiviare le polemiche che non lo erano e ha messo a nudo la politica degli alibi e del Maalox. Il passaggio dal vincolo esterno al vincolo interno e le coordinate di una nuova stagione in quattro discorsi al Senato

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Il tema in fondo è sempre quello: la scrematura delle minchiate. Ieri pomeriggio il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è intervenuto prima al Senato e poi alla Camera per riferire i dettagli dell’accordo raggiunto martedì notte a Bruxelles sul Recovery fund. E chiunque abbia avuto la pazienza di seguire il dibattito parlamentare maturato in seguito alle dichiarazioni del premier non avrà potuto fare a meno di notare che la svolta dell’Europa ha già prodotto un primo visibile, chiaro e importante risultato all’interno del panorama politico del nostro paese. E quel risultato ha a che fare con la capacità di ciascun osservatore di poter riconoscere con maggior precisione rispetto a qualche mese fa la differenza – di fronte ai ragionamenti dei nostri leader politici – tra il fumo e l’arrosto, tra la fuffa e la ciccia, tra un rumore di fondo e un fondo di verità.

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Il tema in fondo è sempre quello: la scrematura delle minchiate. Ieri pomeriggio il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è intervenuto prima al Senato e poi alla Camera per riferire i dettagli dell’accordo raggiunto martedì notte a Bruxelles sul Recovery fund. E chiunque abbia avuto la pazienza di seguire il dibattito parlamentare maturato in seguito alle dichiarazioni del premier non avrà potuto fare a meno di notare che la svolta dell’Europa ha già prodotto un primo visibile, chiaro e importante risultato all’interno del panorama politico del nostro paese. E quel risultato ha a che fare con la capacità di ciascun osservatore di poter riconoscere con maggior precisione rispetto a qualche mese fa la differenza – di fronte ai ragionamenti dei nostri leader politici – tra il fumo e l’arrosto, tra la fuffa e la ciccia, tra un rumore di fondo e un fondo di verità.

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In questo senso, lo spettacolo andato in scena ieri mattina al Senato è stato particolarmente istruttivo. E ascoltare i ragionamenti messi a terra dai vari leader politici è stato un esercizio utile per provare a capire chi, di fronte alla rivoluzione europea, ha accettato di fare un piccolo bagno di realtà e chi invece ha scelto di continuare a fare, come sempre, un dolce bagno nella propria surrealtà. Un bagno di realtà, a suo modo, lo ha fatto Emma Bonino, che in cuor suo deve aver pensato quanto possa essere bizzarro essere alla guida di un partito che si chiama +Europa e non essere a favore di un governo che sta contribuendo a portare all’Italia un po’ più di Europa, che intervenendo al Senato pochi minuti dopo Conte ha riconosciuto al governo, “per onestà politica e intellettuale”, “gli esiti positivi del negoziato condotti nel Consiglio europeo”.

 

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Vale per Bonino e vale forse per tutti gli altri europeisti (come Carlo Calenda) che ogni tanto cadono nella tentazione di salire sul carro del populismo antipopulista e ai quali mai come oggi varrebbe la pena di chiedere: ma siamo così sicuri che sarebbe stato preferibile andare un anno fa a votare ritrovandosi oggi di fronte alla partita della vita per l’Italia con un premier ostaggio di Borghi e Bagnai alleato in Europa con tutti i partiti che hanno combattuto per non scucire un euro per l’Italia?

 

Un contributo sostanziale al tema delle polemiche che non lo erano lo ha dato anche Matteo Renzi, che sempre ieri al Senato ha cancellato dal suo discorso ogni dettaglio retorico capace di innescare retroscena relativi a un famigerato e sempre imminente cambio di governo. E nel farlo Renzi ha invitato il premier a continuare su questa strada: “Mi auguro davvero che, anche sul piano italiano, lei possa dimostrare la persistenza e la pervicacia che ha dimostrato in Europa con tutta la sua squadra. Noi la apprezziamo per questo e le diciamo che, se questa sarà la strada su cui il governo dovrà proseguire, saremo sempre più convintamente al fianco suo e di chi sceglie l’Europa contro il nazionalismo e il sovranismo”.

 

Un piccolo tentativo di uscire fuori dalla bolla della surrealtà l’ha fatto il partito di Giorgia Meloni, che con Daniela Santanchè, ancora al Senato, ha rimproverato il governo utilizzando però una chiave non antieuropeista e sostenendo cioè che il governo non può essere soddisfatto di quello che ha portato a casa perché avrebbe dovuto fare di più (“il governo e l’Italia sono usciti da questa trattativa con meno soldi a fondo perduto e più prestiti, quindi con un maggior debito, e la nostra preoccupazione è che anche questi soldi che adesso arriveranno verranno spesi molto male”). A suo modo è un tentativo di non negare l’evidenza, ovverosia di non negare che l’Europa ha fatto il suo dovere e che essere contro l’Europa oggi significa essere contro lo stanziamento di un malloppo da 2.640 miliardi di euro (tra Pepp, Mes, Bei, Sure, Recovery).

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Un tentativo che invece ha scelto di non fare Matteo Salvini che nel corso del suo intervento, sempre al Senato, ha mostrato l’irreversibilità del suo estremismo, la sua incapacità di cambiare registro e la non comprensione di un fatto ormai autoevidente, che ha a che fare con il saper distinguere la fuffa dalla ciccia: demonizzare l’Europa poteva funzionare quando l’Europa non faceva niente, ma oggi che l’Europa qualcosa fa parlare ancora di Europa significa lottare contro i mulini a vento armati al massimo di ottimo Maalox. E così Salvini ha scelto di criticare l’accordo europeo prima dicendo una falsità (il leader della Lega sostiene che sia insensato che l’Europa ci dica come spendere i soldi che ci concede, essendo quei soldi i soldi dell’Italia, dimenticando però che l’Italia grazie al meccanismo del Recovery fund passa dall’essere un contribuente netto a essere un beneficiario netto dei fondi europei, per una quota che si aggira attorno ai 25 miliardi). Poi ha sostenuto che sia assurdo che chi presta i soldi a qualcuno dica a quel qualcuno come spenderli (evidentemente Salvini ha 49 milioni di buoni amici in banca).

   

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Quindi è entrato in confusione iniziando a chiedere di usare i fondi del Recovery fund per fare la flat tax (i soldi del Recovery fund, come è noto, sono una tantum, il taglio delle tasse non è una tantum, ma questo Bagnai si è dimenticato di spiegarlo a Salvini); parlando di temi del tutto scollegati dalla questione del Recovery fund (“non ritengo la coltivazione e lo spaccio della canapa fondamentali per il futuro del nostro paese, anzi ritengo che la droga sia morte da combattere”); e arrivando infine ad ammettere che l’Italia avrebbe bisogno di chiedere all’Europa una linea di credito per le spese sanitarie (Salvini dice di usare i soldi del Recovery per la sanità, “per aumentare il numero delle borse di studio per i ragazzi e le ragazze laureati in medicina, ma dimentica di ricordarsi che i soldi per la sanità sono quelli del Mes e non quelli del Recovery).

    

L’incapacità di Salvini di distinguere la ciccia dalla fuffa è contenuta anche in altre affermazioni (il testo integrale del pregevole discorso lo trovate nell’inserto VIII del foglio oggi in edicola) ma il dibattito di ieri al Senato è stato educativo perché ha permesso di inquadrare una nuova divisione del mondo: da una parte c’è una politica che ha capito che in una stagione in cui l’Europa c’è occorre occuparsi meno del vincolo esterno e più del vincolo interno (aiutiamoci a casa nostra); dall’altra parte c’è invece una politica ostaggio degli hashtag incapace di leggere lo spartito della nuova stagione e incapace di fare quello che ogni partito con la testa sulle spalle di fronte a quei 2.640 miliardi di euro che arrivano dall’Europa avrebbe forse il dovere di fare: uscire fuori dalla logica degli alibi, mettere da parte i rumori di fondo e portare avanti una formidabile potatura delle proprie minchiate. Anche perché, caro Salvini, tre anni così possono essere davvero molto lunghi.

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