PUBBLICITÁ

I tre anni di ottimismo che ci aspettano, grazie alla nuova Europa

Claudio Cerasa

Soldi a pioggia. Stati che collaborano. Riforme da urlo. La ciccia del Recovery si chiama resilienza. E farà bene all’Italia

PUBBLICITÁ

A prescindere da quale sarà l’equilibrio finale che i capi di stato e i capi di governo d’Europa troveranno per dar vita al Recovery fund, c’è un tema importante che inizia a emergere con chiarezza dalle trattative europee e che se inquadrato nel modo giusto costituisce una solida ragione per essere ottimisti sul futuro dell’Italia. Quel tema è legato alla seconda “R” che accompagna il progetto del Recovery fund ed è una “R” che a che fare con quella che potrebbe diventare la vera parola-chiave della fase in cui entrerà l’Italia una volta che il piano di rinascita europeo sarà ultimato: la resilienza. In modo un po’ rude e un po’ spigoloso, la questione l’ha messa a fuoco bene ieri il cancelliere austriaco Sebastian Kurz che, parlando a nome dei cosiddetti paesi frugali, ha ribadito – come se fosse una minaccia – che il meccanismo del Recovery fund ha un senso nella misura in cui “gli aiuti siano usati per riforme lungimiranti e non per progetti orientati al passato”.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


A prescindere da quale sarà l’equilibrio finale che i capi di stato e i capi di governo d’Europa troveranno per dar vita al Recovery fund, c’è un tema importante che inizia a emergere con chiarezza dalle trattative europee e che se inquadrato nel modo giusto costituisce una solida ragione per essere ottimisti sul futuro dell’Italia. Quel tema è legato alla seconda “R” che accompagna il progetto del Recovery fund ed è una “R” che a che fare con quella che potrebbe diventare la vera parola-chiave della fase in cui entrerà l’Italia una volta che il piano di rinascita europeo sarà ultimato: la resilienza. In modo un po’ rude e un po’ spigoloso, la questione l’ha messa a fuoco bene ieri il cancelliere austriaco Sebastian Kurz che, parlando a nome dei cosiddetti paesi frugali, ha ribadito – come se fosse una minaccia – che il meccanismo del Recovery fund ha un senso nella misura in cui “gli aiuti siano usati per riforme lungimiranti e non per progetti orientati al passato”.

PUBBLICITÁ

 

Da un certo punto di vista, si può dire che il vero dato interessante della poderosa macchina da soldi che sta mettendo in moto l’Europa è legato proprio a questa considerazione. Ed è legata in particolare alla disponibilità mostrata in questi mesi da tutti i paesi europei – anche quelli meno disciplinati – di accettare un principio che un tempo sarebbe stato considerato un tabù: legare la richiesta di una discreta quantità di denaro messa in circolo attraverso la creazione di debito comune al raggiungimento di una serie di obiettivi piuttosto ambiziosi. Gli ingranaggi definitivi del Recovery fund li conosceremo probabilmente nei prossimi giorni, ma ciò che conta del piano di ricostruzione dell’Europa è un meccanismo che una volta accettato potrebbe generare per i paesi richiedenti un’inaspettata e feconda stagione di formidabili riforme strutturali. Gli stati membri dell’Ue, come è noto, prima di ottenere l’accesso ai fondi (in tutto sono 750 miliardi, all’Italia ne dovrebbero spettare circa 175) dovranno presentare alle istituzioni europee il cosiddetto “piano nazionale di ripresa e di resilienza”. E al contrario di quello che in molti vorrebbero far credere, presentare quel piano (che avrà durata triennale, ovvero dal 2021 al 2024) non sarà una semplice formalità ma sarà l’occasione in cui i paesi membri avranno il dovere di indicare in quale forma negli anni successivi intenderanno dar vita a un grande piano di resilienza nazionale.

 

PUBBLICITÁ

Marco Buti, già direttore generale per gli Affari economici e finanziari dell’Unione europea e oggi capo di gabinetto del commissario all’Economia Paolo Gentiloni, in un paper pubblicato qualche giorno fa per la Luiss, dedicato proprio al tema della Next Generation Ue, ha spiegato con parole meno drastiche di quelle usate da Kurz la dimensione di una rivoluzione di cui pochi oggi sembrano rendersi conto. Primo: “L’effettivo accesso alla componente più rilevante del Next Generation Ue da parte dei paesi potenzialmente beneficiari richiede la preliminare definizione di un insieme di investimenti e di riforme strategiche, inscrivibili in un coerente quadro programmatico e organizzativo di alto profilo”. Secondo: “La traduzione di questa strategia in progetti concreti andrà sottoposta all’approvazione delle istituzioni europee e, poi, dovrà essere realizzata in periodi temporali vincolati. E l’effettiva erogazione delle risorse è condizionata al fatto che i singoli paesi elaborino un piano di rinascita e di resilienza in grado di superare il vaglio del semestre europeo e siano in grado di tradurli in progetti concreti”. In altre parole, se i tasselli del Recovery fund andranno al loro posto in tempi rapidi, cosa non impossibile, i paesi che chiederanno di avere accesso ai fondi europei saranno costretti già ad ottobre a presentare insieme con il “draft” che ogni governo deve inviare ogni autunno alla Commissione europea un piano di riforme strutturali immaginate per i tre anni successivi per le quali richiedere i finanziamenti europei.

 

Non si tratta solo di una tecnicalità. Si tratta di comprendere la dimensione di una sfida epocale: provare a cambiare l’Italia con riforme strutturali, non viziate cioè dal virus del presentismo, facendo leva sulla collaborazione tra gli stati, attraverso un percorso di resilienza, che meriterebbe di essere bipartisan, costruito attorno alle formidabili raccomandazioni dell’Europa. Che non sono niente male: “Incentrare la politica economica connessa agli investimenti sulla ricerca e l’innovazione”; “migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione aumentando l’efficienza e la qualità dei servizi pubblici locali”; “affrontare le restrizioni alla concorrenza”; “attuare pienamente le passate riforme pensionistiche al fine di ridurre il peso delle pensioni nella spesa pubblica”; “ridurre la durata dei processi civili; migliorare l’efficacia della lotta contro la corruzione; favorire la ristrutturazione dei bilanci delle banche”. L’istituzione alla quale dovranno essere presentati i progetti non sarà la Commissione, come doveva essere in un primo momento, ma sarà il Consiglio Ue, dove l’approvazione dei progetti avverrà sulla base di una maggioranza qualificata e non sulla base dell’unanimità come avrebbe voluto per esempio l’Olanda. Passare dalla Commissione (che decide autonomamente) al Consiglio (che decide a maggioranza) è un passaggio che può rallentare alcuni meccanismi del Recovery fund. Ma passare dal Consiglio europeo significa che chi vuole prendere oggi soldi dall’Europa – oltre a dover fare riforme con gli attributi – dovrà anche impegnarsi nei prossimi tre anni a collaborare bene con i paesi più amici dell’Europa (sovranismo no, grazie). E diteci voi, di fronte a tuto questo, come si fa a non essere ottimistiE se per l’accordo servirà qualche giorno in più, pazienza: aspetteremo con fiducia.

PUBBLICITÁ