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A Pomigliano col partito di Bibbiano

Valerio Valentini

Di Maio ci pensa. Le trattative col Pd sono in corso in vista delle comunali di settembre nella sua città natale. Il ministro degli Esteri stretto tra Grillo e Casaleggio

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Che all’idea non sia pregiudizialmente ostile, anzi tutt’altro, lo dimostra il fatto che perfino nella sua città natale, in quel feudo che è diventato piccolo epicentro della politica italiana, Luigi Di Maio abbia deciso che sì, è il caso di provare ad allestire un accordo col Pd. Ed è così che il ministro degli Esteri, in vista delle comunali d’autunno nella sua natia Pomigliano d’Arco, ha dato mandato al suo fedelissimo, quel Dario De Falco già suo compagno di scuola e dunque promosso consigliere a Palazzo Chigi, di trattare coi dem. Negoziato complicato, ammettono nel quartier generale del Pd napoletano, dove comunque ammettono che una trama la si sta imbastendo: “Ma per noi un’intesa la si può trovare solo su un candidato civico. Se loro insistono su un nome del M5s, non se ne fa nulla”. L’idea circola da tempo, stando a quanto si ricava dalle chat dei parlamentari grillini in terra di Campania: almeno da fine giugno, quando il M5s di Pomigliano ha diramato un appello “a tutte le realtà civiche e le forze politiche sane per costruire un programma e una squadra di governo”. E magari per porre fine al regno imperituro del vecchio Lello Russo, politico d’antica forgia socialista, poi transitato in Forza Italia, al sesto mandato da sindaco.

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Che all’idea non sia pregiudizialmente ostile, anzi tutt’altro, lo dimostra il fatto che perfino nella sua città natale, in quel feudo che è diventato piccolo epicentro della politica italiana, Luigi Di Maio abbia deciso che sì, è il caso di provare ad allestire un accordo col Pd. Ed è così che il ministro degli Esteri, in vista delle comunali d’autunno nella sua natia Pomigliano d’Arco, ha dato mandato al suo fedelissimo, quel Dario De Falco già suo compagno di scuola e dunque promosso consigliere a Palazzo Chigi, di trattare coi dem. Negoziato complicato, ammettono nel quartier generale del Pd napoletano, dove comunque ammettono che una trama la si sta imbastendo: “Ma per noi un’intesa la si può trovare solo su un candidato civico. Se loro insistono su un nome del M5s, non se ne fa nulla”. L’idea circola da tempo, stando a quanto si ricava dalle chat dei parlamentari grillini in terra di Campania: almeno da fine giugno, quando il M5s di Pomigliano ha diramato un appello “a tutte le realtà civiche e le forze politiche sane per costruire un programma e una squadra di governo”. E magari per porre fine al regno imperituro del vecchio Lello Russo, politico d’antica forgia socialista, poi transitato in Forza Italia, al sesto mandato da sindaco.

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E insomma si capisce che, se lo promuove a casa sua, Di Maio è ben disposto – o ben rassegnato, ma tant’è – ad accettarlo anche altrove, un accordo col Pd. “Non che la cosa lo entusiasmi”, dice chi parla quotidianamente col ministro, lasciando intendere che no, gli entusiasmi filonazarenici di Beppe Grillo, quelli Di Maio non li condivide affatto. Un po’ per indole personale, non esattamente progressista; e un po’, soprattutto, per convenienza tattica. Assecondare il piano dell’alleanza strutturale, dell’ancoraggio del M5s nel recinto del centrosinistra, significherebbe per lui condannarsi alla marginalità, perché a quel punto la leadership del grillismo riformista e governista sarebbe Giuseppe Conte a rivendicarla a buon diritto. E quanto Di Maio ambisca a fare da spalla del fu “avvocato del popolo” lo dimostra la subdola insistenza con cui, per due volte nel giro di una settimana, ha provato a metterlo sulla graticola.  Prima gli ha messo in mano la rogna del Mes, ché sia lui a risolverla e a prendersi i pernacchi che seguiranno all’abiura (“E certo che lo attiveremo, il Mes”, ci dice un sottosegretario del M5s, in un sussulto di realismo). Poi, ieri Di Maio ha affidato al premier anche il compito di sbrogliare la matassa della revoca della concessione ad Aspi, col garbo di chi tira una amichevolissima pacca sulle spalle a un disgraziato che sta già sull’orlo del burrone (o del ponte). Dunque no, l’idea benedetta da Grillo, quella di sposarsi col Pd utilizzando l’“elevato” Giuseppi come gran cerimoniere, Di Maio non può neppure contemplarla.

 

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Ma neanche può condividere la strategia opposta, quella del redivivo Davide Casaleggio dopo aver piagnucolato per il mancato invito agli Stati generali (voleva presentare il suo piano da 300 miliardi, bontà sua, senza coperture finanziarie), è arrivato a Roma con tutti gli onori. Prima ha cenato con Di Battista, poi ha pranzato con Conte: e a entrambi – per la gioia del primo, e l’ansia del secondo – ha ribadito la sua contrarietà a un’alleanza col Pd sulle regionali. E però anche questa, se percorsa con cocciutaggine, sarebbe una strada senza uscita per Di Maio: perché un’eventuale disfatta del centrosinistra, a settembre, finirebbe per far traballare il governo nazionale, e perché pure in quel caso gli verrebbe imputata la colpa di aver sabotato l’intesa. E infatti in Campania, dopo tanto tentennare, aveva ceduto per non farsi scavalcare dal rivale di sempre Roberto Fico, che l’accordo lo voleva eccome: “Candidiamo il ministro Costa e vediamo se il Pd ci sta”. Il Pd, poi, anche per via del Covid e la conseguente apoteosi di De Luca, ha tirato dritto – come in Puglia con Emiliano – e per Di Maio la cosa s’è chiusa lì.

 

Ci spera ancora, invece, in Liguria: e i grillini genovesi che conducono le trattative se lo sono sentiti ripetere più volte, dal ministro degli Esteri: “Se si riesce a fare un’alleanza, facciamola. Purché non si candidi Sansa”, il giornalista del Fatto che col leader grillino non ha un buon rapporto. E dunque Di Maio sta lì, tra Conte e Dibba, tra Grillo e Casaleggio: a metà del guado, confidando che presto arrivi davvero il suo turno. E intanto, però, vuole governare: a Roma e sui territori, e se per farlo serve allearsi col “partito di Bibbiano”, ben venga. Perfino a Pomigliano, a casa sua.

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