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Non rompete le scatole

Salvatore Merlo

Zingaretti-Franceschini-Orlando inviano messaggi al resto del Pd. Ma oltre l’unità c’è la maggioranza Ursula che potrebbe nascere martedì in Senato sulla Libia

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L’unità (nel partito) e la stabilità (al governo), prima di tutto e a ogni costo. Dario Franceschini, Andrea Orlando e Nicola Zingaretti, con una serie di interviste, dichiarazioni e telefonate in privato, hanno riconfermato quel patto di sangue tra le correnti del Pd che a marzo del 2019 aveva portato all’elezione a segretario proprio di Zingaretti, il federatore delle correnti, l’uomo la cui qualità, insieme politica e umana, risiede da sempre, dai tempi della Fgci e dei calzoni corti, in un’inesausta capacità di mediazione, l’uomo considerato necessario dopo i traumi e le scissioni, dopo l’addio di Bersani e di Renzi.

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L’unità (nel partito) e la stabilità (al governo), prima di tutto e a ogni costo. Dario Franceschini, Andrea Orlando e Nicola Zingaretti, con una serie di interviste, dichiarazioni e telefonate in privato, hanno riconfermato quel patto di sangue tra le correnti del Pd che a marzo del 2019 aveva portato all’elezione a segretario proprio di Zingaretti, il federatore delle correnti, l’uomo la cui qualità, insieme politica e umana, risiede da sempre, dai tempi della Fgci e dei calzoni corti, in un’inesausta capacità di mediazione, l’uomo considerato necessario dopo i traumi e le scissioni, dopo l’addio di Bersani e di Renzi.

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Rampognato dunque Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo che aveva ipotizzato un congresso e il cambio alla segreteria (“picconatore da salotto”), rimesso a posto – ma è poi possibile? – il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, ecco il messaggio politico – o politicista – che Franceschini ieri ha lanciato, su Repubblica, rassicurante per tutti gli interlocutori che contano: non c’è alternativa a Giuseppe Conte premier e anche Zingaretti deve restare al suo posto. Discussione chiusa.

    

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Insomma, come sintetizzano brutalmente dal Nazareno: non rompete le scatole. Eppure dei problemi ci sono, questioni politiche che prescindono dalle ambizioni o dalle polemiche interne. Oggi, in Senato, per esempio, si dovrà votare il decreto missioni, compresi i pattugliamenti della Guardia costiera. E il centrosinistra perderà diversi voti, in quel ramo del Parlamento in cui già la maggioranza si regge a malapena. Nel Pd mancheranno con certezza i voti della corrente di Matteo Orfini (tre senatori) e probabilmente anche il voto di Tommaso Nannicini, oltre all’intero gruppo parlamentare di Leu. Ed ecco allora che, già oggi, a palazzo Madama si potrebbe registrare di fatto una nuova maggioranza (e non sul Mes ma sulla Libia), che comprende pezzi del centrodestra, probabilmente Forza Italia.

  

Effetti anche di questo clima che predica l’unità, ma lascia fermentare il malanimo. “Nei partiti si discute. E’ così che funziona”, ripete da tempo Orfini. Lo pensano ovviamente anche i riformisti del Pd, lo dice Dario Nardella, il sindaco di Firenze: “Se il Pd assume l’unità come un aspetto formale della sua vita politica, rischia l’osso del collo. In mancanza di idee, chiarezza e proposte, del Pd non resterebbero che gruppi di potere e correnti”.

  

E secondo i suoi amici, anche l’ex ministro Marco Minniti, da una distanza ormai siderale osserva tutto con rassegnazione “perché l’unità in un partito è una cosa molto importante. Ma è un mezzo per fare politica. Se la trasformi in un fine, ti condanni alla paralisi”. Considerazioni che investono la natura stessa del Pd, il suo futuro, il rapporto con i 5 stelle, la sua capacità d’interpretare da qui ai prossimi mesi una fase complessa, fino alle difficoltà di manovra politica che ieri sono state segnalate da un sondaggio pubblicato dal Sole 24 Ore: la classifica sul gradimento dei governatori assegnava a Michele Emiliano un eloquente penultimo posto tra i presidenti di regione, alla vigilia della campagna elettorale per le elezioni di settembre. Da qui la considerazione che fanno in tanti nel Pd: se non ci fosse la palude imposta dal totem dell’unità, forse ci si sarebbe potuti liberare di Emiliano chiedendo in cambio al M5s di rinunciare a Raggi e Appendino. Quanto costerà, alla fine, il “non rompete le scatole” di Franceschini?

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