Manifestazione del Pd a Roma nel settembre 2018

Mettere il Pd sul lettino

Carmelo Caruso

Si può governare o no con un partito in quarantena? Parlano A. Parisi, B. De Giovanni, Macaluso e Vassallo

Roma. “Eh no, caro Giuliano (e si parla di Ferrara), il Pd ha bisogno di un leader e non della modestia di Nicola Zingaretti. Ha ragione Giorgio Gori. Primarie! Senza dubbio” dice il filosofo Biagio De Giovanni. “Macché primarie! Io rispondo: mozioni e congresso. Ma cosa vuole ‘il Gori’? Se le sue ragioni sono serie, chieda la modifica dello statuto” suggerisce il Macaluso che è Emanuele. E lei, Achille Occhetto, cosa ne pensa? “No, no. Io non posso anticipare le mie tesi sulla leadership del Pd che andranno in libreria a ottobre. Direi di risentirci a settembre se siete d’accordo”.

 

Ma quando è accaduto? Come? Il Pd è rimasto senza sigarette. Dove sono finiti i fumi dei documenti, le relazioni e il tabacco della minoranza, l’articolo dello statuto che al paragrafo sancisce…, i tanti “e però, caro segretario, non stai dimostrando una moderna visione di classe”? Va bene che Gori non è il compagno Ingrao, non è Alessandro Natta, ma le sue parole non meritavano forse un’interminabile direzione straordinaria del Pd, un ordine del giorno in una di quelle tante sedute di autocoscienza che sono state identità e specialità di sinistra? La sua richiesta di sostituire il segretario non è stata presa in esame da quel partito e da quegli uomini abituati a strapazzare e strapazzarci di discussioni, interventi, prolusioni, piattaforme.

  

Andrea Orlando, il vicesegretario, uno cresciuto con l’idea che ogni gesto umano andrebbe sottoposto al dibattito interno per “giungere alla migliore sintesi possibile”, gli ha dato dello stolto (“Discussione su un congresso che non c’è. #astuzia”). Dario Franceschini, un altro che si è formato leggendo gli interventi di Zaccagnini, ha stracciato la sua richiesta: “Anticipare congresso Pd? Non se ne parla”. Ma si può ancora parlare di partito scalabile, contendibile, la leadership che si può afferrare con democrazia e carisma? La responsabilità di governo prima, la pandemia dopo. Bastano gli incidenti del tempo a sospendere la storia e la dialettica di un partito? Salvatore Vassallo, professore di Scienza politica all’Università di Bologna, dice che “la dialettica nel Pd si è sicuramente attenuata e che l’idea di leadership, anche a causa degli errori di Matteo Renzi, è andata in crisi”. Da studioso gli venne chiesto da Walter Veltroni di contribuire alla redazione dello statuto del Pd e nel 2006, nella relazione di Orvieto promossa da Romano Prodi, è stato il primo a teorizzare per i dem le categorie di contendibilità e scalabilità, test sierologici che indicano lo stato di salute di un movimento e che anticipano gli sbalzi dell’avvenire. 

  

La domanda è allora una o forse più di una: il Pd scalabile lo è ancora, lo è meno, non lo è più? Insomma, professore, perché questa ostilità verso le parole di Gori? “Io penso che sia meno contendibile, ma è ancora contendibile”. E per Vassallo le primarie sono state immaginate proprio per favorire la conquista: “Avere un leader forte, ma non proprietario del partito. Facilmente sostituibile e non assoggettato ai capicorrente come accadeva in precedenza”. E invece sono tornati i capicorrente, Franceschini, Orlando che, per dirla alla maniera vecchia, sono “le personalità più influenti” e che oggi mantengono “una posizione dominante”. E infatti, secondo il professore, è la loro stagione più che la stagione del segretario, uomo dalle passioni tiepide che è stato però votato proprio per mitezza e sobrietà, Zingaretti come il tranquillante per curare il renzismo, una tisana per i guasti dell’ego. “Per il momento non si vedono figure capaci di contendere a Zingaretti la leadership. Stefano Bonaccini attende. Se si decidesse a scendere in campo la situazione cambierebbe. Ma è improbabile che lo faccia. Ma del resto si è affievolita anche la tensione verso le primarie. Oggi la partecipazione, diciamolo, sarebbe bassa. Insomma, in che modo si dovrebbe sostituire Zingaretti? Lo si dovrebbe sfiduciare?” chiede Vassallo che ragiona sulla “medietà della leadership” che potrebbe essere una forza anziché una dichiarazione di impotenza.

  

Zingaretti ha il profilo, anzi, la postura, del leader che non è leader. “Chi ci dice che non sia questo il tempo di leader non determinanti ma necessari? Senza Zingaretti non si sarebbe costituito un governo e cambiata l’alleanza. Sono leadership che definiamo ‘mediocri’, ma che in realtà e come spiegato, non lo sono. La difficoltà è semmai un’altra: non possono mantenersi a lungo” pensa Vassallo del parere che Gori non abbia tanto provato a scalare il Pd, ma solo a indicare un problema che nel Pd esiste.

  

“E invece, io penso, al contrario, che il problema siano le primarie. E si dica una volta per tutte: un partito deve essere scalabile ma dagli iscritti e non dai cittadini”, suggerisce Macaluso: “Innanzitutto, voglio precisare che non ci possono essere partiti se non partiti di iscritti. Questa è la premessa. ‘Il Gori’ ha ragione anche se sbaglia battaglia. La lotta da fare è sui regolamenti, sulle modalità di selezione del segretario. Di sicuro non si può sospendere il dibattito, leale e continuo, di un partito per non disturbare il governo come sento, troppo spesso, ripetere. La responsabilità nei confronti dell’esecutivo non c’entra niente con la dialettica, la natura di un partito”. Fedele ancora, a novantasei anni, alla “forza della parola”, Macaluso è altrettanto fedele all’idea del partito strutturato con tutti gli attrezzi della grande organizzazione di massa: “Ma, scusate, perché ci si dovrebbe ancora iscrivere se poi il leader lo elegge chi passa per la strada?” domanda sempre Macaluso che non accetta le nuove formule di selezione e non perché è legato al passato ma perché il passato garantiva meglio il futuro. “Ebbene, posso dirlo? La modernità a tratti è una minchiata. Un partito si scala con le mozioni e non con queste nuove invenzioni. Mozioni significano documenti. Chi non è d’accordo presenta un’altra mozione. Chi la condivide la sostiene in uno scontro aperto che è il congresso. I segretari si eleggono attraverso congressi provinciali, regionali. Lo fanno nel resto del mondo tranne qui. Perché dobbiamo fare diversamente?”. Ma un governo come si tutela, ce lo dice? “Il governo lo protegge il partito nella sua unità. Non si può congelare la vita, anche la lite interna che non è, come qualcuno crede, il vizio della sinistra. In un partito esistono grammatiche e quando funzionano anche le liti più laceranti si possono governare e dunque possono arricchire”.

  

E’ vero che l’album della sinistra e poi del Pd è un album di asprezze, di rivalità fatali, D’Alema-Veltroni, Renzi-Bersani, ma un Pd senza asprezze non è un partito che si condanna al tramonto? Qui non si sa più se sia un bene inscatolare un segretario o se sia peggio monumentalizzare una segreteria. Arturo Parisi, ad esempio, rovescia quanto si è detto fino adesso. E’ ritenuto l’inventore delle primarie, sembrano un evento lontanissimo, che non hanno mai consegnato leadership stabili e malgrado l’investitura di popolo che doveva proteggere dai miasmi e dai malumori delle correnti. “A me sembra che nel Pd la leadership sia stata sempre contestata nei fatti proprio perché mai veramente riconosciuta. Nonostante i sedici anni passati, da quando si è cominciato a parlare di primarie, il principio della contendibilità è stato proclamato di giorno e logorato nei fatti di notte”. Per Parisi, che il Pd l’ha inventato, insieme a Prodi, con i tanti libri letti e masticati, “le primarie ideali restano ancora quelle confermative. Restano quelle che confermano un risultato certo, incerto nella sua quantità ma nel risultato già deciso”. Neppure Parisi crede che l’uscita di Gori anticipi una candidatura prossima. Non ci sarà. “La sua mi sembra piuttosto una proposta formalmente intempestiva. Altra cosa sarebbe stata se invece di alzare la mano di un altro avesse sollevato la propria”. Stessa idea di Macaluso che conosce la pasta umana e la materia di cui sono fatte le ambizioni: “Ho l’impressione che la sua richiesta finirà nel niente. Diciamo che si è sfogato”.

  

Ma cosa c’è di più fresco degli sfoghi o di autentico? Non c’era davvero da temere e in ogni caso è stato sbagliato demonizzare le sue frasi che – pure se scomposte nei tempi – per Matteo Orfini, ex presidente del partito, non meritavano certo la malagrazia, quel fastidio che le ha accompagnate. Orfini dice che ultimamente “nel Pd capita anche questo. Ne so qualcosa”. E’ tra i pochissimi che hanno mantenuto diritto di tribuna e che ancora parlano con franchezza. Dopo la scossa di Gori, il Pd, compatto, ha infatti scelto di non rilasciare dichiarazioni. Si ha libertà di discutere del governo, ma non del Pd. “E tutto questo mi fa pensare che il Pd non stia in gran forma. Detto questo, non smetto di credere che il Pd resti scalabile. Lo è”. Per Orfini la vera insidia è sacrificarsi e rischiare di snaturarsi. E’ stato tra i pochissimi che hanno criticato la decisione del governo di non intervenire energicamente sui decreti sicurezza che “dovevamo abolire e non rivedere”. Ha ingaggiato una disputa di merito per quanto riguarda il finanziamento alla Guardia costiera libica che il Pd, riunito in assemblea nazionale, aveva deciso di negare. Ha contestato l’accordo fra Italia ed Egitto per le fregate vendute da Fincantieri. Orfini ricorda quello che molti hanno dimenticato. E’ stato Zingaretti, prima della pandemia, a parlare di congresso anticipato ed era stato ancora il segretario a proporre il cambio di nome del Pd correggendosi successivamente, ma mai smentendo. “Sia chiaro, è doveroso unirci dopo il dramma di questi mesi, ma questo non significa che non debba più esserci una vita di partito. Io ho la presunzione di continuare a farla e devo dire che ho ricevuto delle risposte. Venerdì è stata convocata una direzione urgente per parlare di Italia ed Egitto”.

  

Nel Pd, da alcune settimane, si parla dell’altro Pd, quello di governo. Non è stato detto ma sono davvero due. Il Pd che sì è caricato l’esecutivo, ascolta e sopporta il Pd che continua a fare il Pd. Orfini rivela che accade spesso che la rappresentanza ministeriale sembri quasi la controparte della squadra parlamentare: “La stabilità non può cancellare le nostre battaglie. Si va in cortocircuito. A volte si ha il dovere di dire no, anche a Conte”. Non è straordinario anche questo? Da quanto tempo il Pd non finiva sul proprio lettino? Biagio De Giovanni, che è stato deputato del Pci, Pds, Ds, sensibile alla novità renziana, è uno che chiede il suo ricovero e non per cambiare segretario, come ha sussurrato Gori, ma per inadempienza verso il passato. Ma se fosse così non saremmo di fronte al partito più scalabile, l’unico? “Non si può scalare il residuo di un partito. E il Pd è un residuo di partito. Non sono un nostalgico, ma un partito deve essere qualcosa, deve pur avere un’idea. A me sembra solo subalterno a Conte, al M5s. E smettiamola con questa storia che chi critica il Pd vuole indebolire e rompere l’alleanza di governo”. L’unica cosa che De Giovanni ha recentemente rotto è il suo braccio (“ho tolto il gesso”), ma sta recuperando, come si capisce. Non è tra coloro, queste sì marmotte, che vogliono tornare indietro e all’estate scorsa. Non vuole frantumare il governo a favore del partito, ma è tra i sostenitori del bisogno e della libera circolazione di allegri “rompiscatole” democratici, un reparto scelto che sollecita, sprona su argomenti come decreti sicurezza, ius culturae, la lotta all’antiparlamentarismo. “Tutto è preferibile a questo Pd in condizioni stazionarie. Non è che la pandemia può interrompere il diritto di fare politica. Non serve solo il governo. Serve un partito. Nel Pd, la pandemia, come il governo, è un alibi per non discutere. Si chiamava una volta governismo. Ma è una morta gora, una palude”. E per De Giovanni, anche lui come Macaluso, formidabile uomo che per età si può permettere l’insubordinazione, “sbagliato è andare avanti piano. E poi per andare dove? Questa è la domanda”. E’ pronto a litigare con Ferrara che però prima abbraccia “perché con la sua idea del ‘segretario modesto’ riesce a catturarmi e farmi vacillare”. Lo possiamo dire: è d’accordo con Gori: “Già abbiamo difficoltà a parlare con le mascherine. Non chiedeteci di rinunciare per salvare il governo. Dopo l’Italia in quarantena non posso accettare un partito in quarantena. Al Pd chiedo qualcosa di speciale” dice De Giovanni che è il prodotto, lui sì speciale, di una cultura che non ha mai temuto le parole, anche se di polvere, che sono state a volte filosofia dell’inconcludenza, libri improbabili e illeggibili ma sempre politica, speculazione lunghissima. E’ quanto di più lontano possa esserci da Gori, ex uomo d’azienda, che oggi è più vicino a Zingaretti dello stesso Zingaretti, uomo di partito, sorvegliato da chi la pensa come il “segretario”, ma solo per rimanere in “segreteria”.

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