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La frusta che serve per far correre di nuovo gli spiriti animali

Claudio Cerasa

Mettersi in gioco, osare di più, cavalcare le trasformazioni per uscire dalla crisi. Giusti gli aiuti dello stato, ma non bastano: non c’è ripresa senza una poderosa assunzione di responsabilità da parte della classe dirigente del paese

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Lo spirito è chiaro, ma gli animali ci sono? In un bellissimo articolo pubblicato qualche giorno fa sul Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli ha offerto uno spunto interessante che ci permette di mettere a fuoco un tema cruciale della fase che sta vivendo l’Italia che misteriosamente sembra sfuggire a molti osservatori. “Una classe dirigente privata all’altezza del compito che la storia le assegna non può limitarsi a premere per riaprire le fabbriche e invocare aiuti di vario tipo o guardare con ansia a Bruxelles. Deve fare di più. Deve mostrare di avere una cultura più profonda del bene pubblico”. Lo spunto di De Bortoli ci dà la possibilità di ragionare su una questione delicata che ci consente di uscire dalla chiave di lettura tradizionale utilizzata dall’Italia nei momenti di difficoltà – cosa può fare il governo per noi, cosa può fare lo stato per noi, cosa può fare la politica per noi, cosa può fare l’Europa per noi – e che ci costringe a entrare in una dimensione diversa all’interno della quale ciò che conta non è cosa gli altri possono fare per noi ma è ciò che noi possiamo fare per noi stessi. Lo spirito è chiaro, ma gli animali ci sono? Se si osserva l’Italia attraverso questa chiave di lettura si capirà facilmente che un elemento decisivo della fase due – ma forse anche della fase tre, quattro e cinque – è legato al fatto che la classe dirigente del nostro paese non sembra avere sufficiente consapevolezza di un fatto elementare. Non c’è ripresa nel futuro senza una poderosa assunzione di responsabilità da parte di chi dovrebbe guidare gli spiriti animali del paese.

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Lo spirito è chiaro, ma gli animali ci sono? In un bellissimo articolo pubblicato qualche giorno fa sul Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli ha offerto uno spunto interessante che ci permette di mettere a fuoco un tema cruciale della fase che sta vivendo l’Italia che misteriosamente sembra sfuggire a molti osservatori. “Una classe dirigente privata all’altezza del compito che la storia le assegna non può limitarsi a premere per riaprire le fabbriche e invocare aiuti di vario tipo o guardare con ansia a Bruxelles. Deve fare di più. Deve mostrare di avere una cultura più profonda del bene pubblico”. Lo spunto di De Bortoli ci dà la possibilità di ragionare su una questione delicata che ci consente di uscire dalla chiave di lettura tradizionale utilizzata dall’Italia nei momenti di difficoltà – cosa può fare il governo per noi, cosa può fare lo stato per noi, cosa può fare la politica per noi, cosa può fare l’Europa per noi – e che ci costringe a entrare in una dimensione diversa all’interno della quale ciò che conta non è cosa gli altri possono fare per noi ma è ciò che noi possiamo fare per noi stessi. Lo spirito è chiaro, ma gli animali ci sono? Se si osserva l’Italia attraverso questa chiave di lettura si capirà facilmente che un elemento decisivo della fase due – ma forse anche della fase tre, quattro e cinque – è legato al fatto che la classe dirigente del nostro paese non sembra avere sufficiente consapevolezza di un fatto elementare. Non c’è ripresa nel futuro senza una poderosa assunzione di responsabilità da parte di chi dovrebbe guidare gli spiriti animali del paese.

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In una fase di difficoltà, di crisi di liquidità, di disoccupazione galoppante, di decrescita imperante, è giusto e doveroso attendersi che lo stato intervenga laddove deve intervenire. Ma quando un paese deve ritrovare slancio ha bisogno di uscire dall’approccio sindacale e ha bisogno di adottare un approccio per così dire imprenditoriale: mettersi in gioco, osare di più, cavalcare le trasformazioni, guidare i cambiamenti, dare il buon esempio per provare a cambiare l’Italia.

 

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Lo devono fare, singolarmente, individualmente, gli imprenditori, che anche nell’ambito dei propri profili mediatici dovrebbero trovare un modo per uscire dalla retorica della lagna e vestire i panni degli attori del cambiamento, e dovrebbero chiedere a colui che li rappresenta, il nuovo bravissimo presidente degli industriali Carlo Bonomi, di fare di tutto per evitare che il ruolo di capo di Confindustria sia un ruolo da interpretare vestendo i panni del leader specializzato in rivendicazioni sindacali. Lo devono fare, singolarmente, individualmente, i magistrati, che dovrebbero essere consapevoli che non tutti i malfunzionamenti della giustizia dipendono da ciò che il governo non fa, da ciò che lo stato non fa, dai soldi che non arrivano, dalle riforme che non si fanno, ma che una buona parte dei malfunzionamenti della giustizia dipende dal modo in cui ciascun magistrato interpreta il proprio ruolo. Per essere chiari: la giustizia spettacolo non si combatte mettendo il bavaglio ai magistrati ma si combatte invitando i magistrati a non considerarsi come dei monarchi assoluti; la lentezza della giustizia non si combatte solo sperando che vi sia una qualche riforma salvifica ma si combatte anche sperando che i magistrati si occupino un po’ meno di portare avanti teoremi ideologici senza prove; i tic anti industriali della magistratura non si combattono a colpi di decreti ma si combattono sperando che l’organo di autogoverno dei magistrati non chiuda più gli occhi di fronte ai magistrati incompetenti.

 

Lo stesso, se vogliamo, vale per chi lavora nella burocrazia, per chi lavora nelle banche, per chi lavora nella pubblica amministrazione, ed è vero, lo sappiamo tutti, che l’Italia è un posto dove provare a essere efficienti è nella pubblica amministrazione un modo come un altro per rischiare di ritrovarsi indagati per qualcosa, un abuso d’ufficio non si nega nessuno, ma è anche vero che solo un paese che sceglie di rischiare qualcosa è un paese che ha qualche speranza di muoversi e contemporaneamente di smuovere le cose. Vale per tutte le categorie descritte finora ma in una certa misura vale molto anche per chi fa informazione e una classe dirigente con la testa sulle spalle mai come oggi dovrebbe pensare un po’ meno agli ascolti e un po’ meno alle copie ma dovrebbe pensare un po’ più al modo in cui facendo informazione si può provare a formare un paese.

 

Per dirne una: è proprio necessario tornare alla stagione del pubblico che condiziona i dibattiti nei talk-show? E’ proprio necessario tornare alla stagione dei panini nei telegiornali in cui ogni giorno la tv di stato mette in evidenza il litigioso teatrino della cosa pubblica? E’ proprio necessario continuare a usare le intercettazioni per sputtanare il prossimo? E’ proprio necessario continuare a giocare con l’allarmismo facendo di ogni problema risolvibile un’emergenza irrisolvibile? E’ proprio necessario continuare ad alimentare ogni giorno i peggiori istinti anti politici? E’ proprio necessario continuare a dare tutto questo spazio ai propalatori di fake news sull’Europa? E’ davvero necessario orientare l’informazione seguendo la logica della followship, faccio quello che mi dicono i miei follower, e non seguendo la logica della leadership, faccio quello che penso sia giusto fare per guidare i miei follower?

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Un paese che vuole tornare a correre e uscire dalla crisi in cui è entrato non per sua volontà è un paese in cui gli azionisti principali della classe dirigente devono occuparsi un po’ meno di quello che gli altri possono fare per loro e un po’ più di ciò che ciascuno di loro può fare per se stesso. Un paese riparte se i suoi spiriti animali scelgono di ripartire. Ma gli spiriti animali che vogliono tornare a correre non possono farlo pensando che l’unico modo per correre sia usare una bicicletta assistita. L’assistenza serve ma non basta. E’ ora di reagire, di guardarsi allo specchio e di smetterla di prenderci in giro. Lo spirito della ripresa è chiaro, ma il punto è quello: gli animali ci sono oppure no?

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