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Il populismo è il vero disastro della fase 2

Claudio Cerasa

Non detta più l’agenda, non fa più notizia e non emoziona. Dietro allo spaesamento populista c’è una rivoluzione culturale: la prevalenza delle soluzioni sull’identità e il nuovo ruolo dello stato come soggetto di mercato. E’ l’ordoliberalismo, bellezza

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C’è stata una lunga stagione, quella che ha preceduto l’arrivo della pandemia, in cui, in buona parte dell’Europa, la politica della non responsabilità è riuscita a fare breccia nel cuore di molti elettori grazie a una particolare e forse non ripetibile condizione storica: la difficoltà con cui la società del benessere ha prodotto anticorpi capaci di proteggere le democrazie liberali dalle aggressioni portate avanti dai nemici della società aperta. In quella stagione, nella fase zero della nostra vita politica, i populismi hanno avuto molti successi anche perché, a differenza dei loro avversari, sono riusciti in diverse occasioni a diventare veicoli di progetti in grado di regalare sogni.

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C’è stata una lunga stagione, quella che ha preceduto l’arrivo della pandemia, in cui, in buona parte dell’Europa, la politica della non responsabilità è riuscita a fare breccia nel cuore di molti elettori grazie a una particolare e forse non ripetibile condizione storica: la difficoltà con cui la società del benessere ha prodotto anticorpi capaci di proteggere le democrazie liberali dalle aggressioni portate avanti dai nemici della società aperta. In quella stagione, nella fase zero della nostra vita politica, i populismi hanno avuto molti successi anche perché, a differenza dei loro avversari, sono riusciti in diverse occasioni a diventare veicoli di progetti in grado di regalare sogni.

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Quella stagione, una stagione in cui i populismi hanno mostrato una certa dimestichezza nell’offrire agli elettori più capri espiatori chiari che soluzioni concrete, era caratterizzata da una costante a un tratto però sparita dai radar della politica: i movimenti antisistema dettavano quotidianamente l’agenda, imponevano costantemente i temi, costringevano ininterrottamente gli avversari a rincorrerli su qualunque dibattito. L’arrivo della pandemia, sconvolgendo le nostre vite, ha ribaltato lo schema e ha contribuito a creare le condizioni per la nascita di un nuovo mondo all’interno del quale, improvvisamente, il lessico populista – anticasta, antisistema, nazionalista e sovranista – sembra trovarsi in una condizione non troppo diversa rispetto a quella in cui si trovavano pochi mesi fa molti partiti antipopulisti: lontani dallo spirito del tempo, distanti dal nuovo mondo e incapaci di dettare l’agenda. Non si può dire che tutto questo stia accadendo grazie alla presenza in giro per il mondo e in giro per l’Italia di leadership innovative capaci di offrire agli elettori rassicuranti visioni sul futuro.

 

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Si può dire o si può provare a dire che tutto questo sta accadendo invece per una ragione del tutto diversa che ha a che fare con una forte trasformazione del nostro dibattito pubblico, all’interno del quale la dicotomia nuove identità/vecchie identità è stata sostituita dalla dicotomia vecchie soluzioni/nuove soluzioni.

 

Non si tratta solo di un cespuglioso gioco di parole ma si tratta piuttosto di una caratteristica interessante di questa nuova stagione, all’interno della quale il lessico del populismo nazionalista appare essere fuori dal tempo per almeno tre ragioni. Primo: è del tutto evidente che un’ideologia politica nata per correggere le diseguaglianze del mondo a colpi di statalismo si trovi in grande difficoltà in una stagione in cui per ragioni di sopravvivenza economica e sanitaria la maggiore presenza dello stato è diventata un dato di fatto ormai acquisito. Secondo: è del tutto evidente che un’ideologia politica nata per correggere le diseguaglianze del mondo a colpi di antieuropeismo si trovi in grande difficoltà in una stagione in cui per ragioni di sopravvivenza economica e sanitaria l’Europa ha dimostrato di poter proteggere i suoi cittadini più di quanto possa fare da solo ogni singolo stato allontanandosi dall’Europa. Terzo: è del tutto evidente che un’ideologia politica nata per correggere le diseguaglianze del mondo demonizzando la globalizzazione si trovi in grande difficoltà in una stagione in cui anche i nemici della globalizzazione sono costretti ad ammettere che la salvaguardia del nostro benessere è direttamente collegata all’apertura dei mercati e alla capacità delle nostre imprese di poter competere nel mondo.

 

Quest’ultimo punto merita di essere ancora più approfondito perché ci permette di mettere a fuoco la vera ragione per cui in molti paesi coloro che sembrano essere meno pronti ad affrontare la fase 2 sono più i partiti che si trovano all’opposizione che quelli che si trovano al governo. E la ragione anche qui è semplice: chi ha costruito la sua identità politica illudendosi che fosse sufficiente correggere le storture della globalizzazione con anticorpi di neostatalismo oggi deve fare i conti con una situazione del tutto mutata all’interno della quale risulta piuttosto evidente che le forze politiche più adatte a gestire la fase 2 della pandemia saranno quelle in grado di garantire contemporaneamente la libertà di mercato e la giustizia sociale. L’espressione non è delle più facili ma la verità che i populisti prima o poi saranno costretti ad accettare è che nella stagione che ci si presenta di fronte avrà successo solo chi riuscirà ad applicare con intelligenza i princìpi dell’ordoliberalismo che prevedono un concetto che mai come oggi rispecchia lo spirito del tempo: lo stato deve governare il mercato ma deve promuoverlo mosso dalla convinzione che la realizzazione dell’individuo può aversi solo se vengono garantite la libertà di impresa, di mercato e la proprietà privata. Un populismo che volesse tentare di sperimentare una possibile fase 2 dovrebbe accettare di muoversi all’interno delle nuove coordinate della politica mondiale: la pandemia ha reso necessaria una maggiore presenza dello stato e l’unico modo possibile per evitare che la maggiore presenza dello stato possa portare il mondo a coccolare progetti autarchici è assicurarsi non che lo stato sparisca ma che agisca come se fosse un soggetto di mercato. Più stato dove serve, meno stato dove si può. Il benessere dei paesi, la libertà degli individui e la popolarità dei partiti in fondo, oggi, si giocano tutti qui.

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