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Lo scouting sovranista sul Mes avvicina il Pd a Forza Italia

Valerio Valentini

Meloni tenta la trappola con un odg contro il Fondo salva stati. La maggioranza si compatta ma si balla. Quell’asse di Marcucci

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Roma. La logica politica imporrebbe di considerare quelle di Vito Crimi (“Un Mes senza condizionalità? Come potremmo non valutarlo?”), come le parole dell’apertura del M5s al Fondo salva stati, quella di ieri come la giornata della resa del grillismo – come è stato per la Tav, la Tap, i vaccini e tutto il resto – alla cruda prepotenza della realtà. Solo che siccome si ha a che fare col M5s, sulla logica politica è meglio non fare troppo affidamento. Se ne è convinto, una volta di più, anche il viceministro dell’Economia Antonio Misiani, che giovedì sera, con un Def ancora in via di definizione e il Consiglio europeo appena concluso, s’è dovuto chiudere nella stanza del governo insieme alla sua omologa grillina Laura Castelli per dirle che “no, l’ordine del giorno della Meloni non possiamo votarlo”. Un atto del tutto strumentale, quello della leader di FdI, che non aveva altro obiettivo che stanare i grillini: “Se siete davvero contro il Mes, votate con noi”. Bastava molto meno per spingere la Castelli a tentare una soluzione di compromesso, chiedendo una riformulazione dell’odg imboccando un sentiero pericoloso, nella tattica parlamentare, che già una volta aveva costretto maggioranza e opposizione, a Montecitorio, a votare i mini-bot tanto cari a Borghi e Salvini. E insomma è finita che alle dieci di sera, nel bel mezzo di una pandemia e con una manovra da 55 miliardi da perfezionare, Dario Franceschini s’è trovato a costretto a occuparsi di un ordine del giorno. “Il punto è politico: noi l’odg della Meloni non lo votiamo”, ha tagliato corto il capo delegazione del Pd, sperando che la cosa fosse finita lì.

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Roma. La logica politica imporrebbe di considerare quelle di Vito Crimi (“Un Mes senza condizionalità? Come potremmo non valutarlo?”), come le parole dell’apertura del M5s al Fondo salva stati, quella di ieri come la giornata della resa del grillismo – come è stato per la Tav, la Tap, i vaccini e tutto il resto – alla cruda prepotenza della realtà. Solo che siccome si ha a che fare col M5s, sulla logica politica è meglio non fare troppo affidamento. Se ne è convinto, una volta di più, anche il viceministro dell’Economia Antonio Misiani, che giovedì sera, con un Def ancora in via di definizione e il Consiglio europeo appena concluso, s’è dovuto chiudere nella stanza del governo insieme alla sua omologa grillina Laura Castelli per dirle che “no, l’ordine del giorno della Meloni non possiamo votarlo”. Un atto del tutto strumentale, quello della leader di FdI, che non aveva altro obiettivo che stanare i grillini: “Se siete davvero contro il Mes, votate con noi”. Bastava molto meno per spingere la Castelli a tentare una soluzione di compromesso, chiedendo una riformulazione dell’odg imboccando un sentiero pericoloso, nella tattica parlamentare, che già una volta aveva costretto maggioranza e opposizione, a Montecitorio, a votare i mini-bot tanto cari a Borghi e Salvini. E insomma è finita che alle dieci di sera, nel bel mezzo di una pandemia e con una manovra da 55 miliardi da perfezionare, Dario Franceschini s’è trovato a costretto a occuparsi di un ordine del giorno. “Il punto è politico: noi l’odg della Meloni non lo votiamo”, ha tagliato corto il capo delegazione del Pd, sperando che la cosa fosse finita lì.

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E invece, all’alba dell’indomani, c’è voluta tutta la pazienza di Sergio Battelli e di qualche altro grillino ragionevole per convincere i colleghi a non cadere nell’inganno meloniano. Cosa che è riuscita solo in parte, se è vero che dei centoventinove grillini presenti in Aula, sette hanno comunque votato l’odg di FdI, contravvenendo alle indicazioni del governo, e almeno una quindicina – tra cui l’ex ministro Giulia Grillo e la responsabile Esteri Iolanda Di Stasio – hanno evitato di partecipare al voto. “Qualcuno dei nostri alla Camera è caduto nella trappola della Meloni, ma se ci dovesse essere un voto non ci saranno problemi”, mette le mani avanti Ettore Licheri, senatore del M5s, ridimensionando quello che in effetti è un inconcludente atto d’indirizzo, ma che proprio per la sua irrilevanza testimonia della suscettibilità del M5s, della sua refrattarietà alla ragionevolezza. Anche perché lo stesso Licheri, presidente della commissione Affari europei, non depone affatto la combattività grillina: “Non c’è alcuna apertura al Mes. Il M5s – ci dice – non ci pensa affatto ad attivare uno strumento che ad oggi, al di là delle chiacchiere, mantiene tutte le condizionalità originarie. Noi giudichiamo solo in base all’interesse nazionale e ai documenti ufficiali, quindi se mai leggeremo nero su bianco che questo nuovo prestito verrà concesso in deroga alle regole del Mes, quindi senza l’ombra di condizionali future né la possibilità di inserirne più avanti, allora sarà un nuovo strumento che non ha nulla a che fare con il Mes e lo valuteremo perché non farlo sarebbe da stolti”.

 

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Più che un ravvedimento, è forse l’inizio di un travaglio che magari porterà davvero a ciò che una parte del Pd spera, e cioè a un ricompattamento della maggioranza. Ma non sarà scontato. Un po’ perché, come dice il senatore Mattia Crucioli, che pure si affida “alla sapienza del premier Conte”, “su temi così delicati come quelli che saremo chiamati a valutare nelle prossime settimane, ogni singolo parlamentare risponderà innanzitutto alla sua coscienza, alla sua sensibilità: non c’è disciplina di gruppo che tenga” (Rischioso, gli si fa notare, con non più di tredici voti di margine, per la maggioranza, a Palazzo Madama: “Ma d’altronde rischiosi – risponde lui – sono i tempi che abbiamo di fronte”). E un po’ perché, dopo il ritorno di Dibba, ognuno si sente libero di fare un po’ quel che vuole, nei gruppi: e così Gianluca Ferrara sta raccogliendo le firme per un’interrogazione al ministro Guerini su una improbabile moratoria sull’acquisto degli F-35, e alla Camera c’è una pattuglia sovranista che sta già pensando di utilizzare i decreti in arrivo per riproporre scombiccherate proposte di moneta virtuale e mini-bot anti-Covid.

 

Sarà anche per questo che, guardando in prospettiva, in tanti nel Pd si vanno convincendo che questo equilibrio non può durare a lungo, e che presto o tardi bisognerà ragionarci sul serio, sull’ingresso di Forza Italia in maggioranza. E allora non è un caso che ieri Andrea Marcucci, tentando di disinnescare l’inoffensiva mina leghista della mozione di sfiducia al ministro Gualtieri, si sia detto certo che “non passerà, perché per fortuna anche nel centrodestra ci sono persone assennate che non la voteranno”. Che è un po’ come invitare gli azzurri a distanziarsi ancor più dall’ombra sovranista di Lega e FdI. E d’altronde, solo per restare alle ultime ore, non è sfuggito l’imbarazzo con cui Maria Stella Gelmini, capogruppo alla Camera, s’è dovuta alzare in Aula per correggere il voto che alcuni deputati forzisti, lei compresa, avevano dato sull’odg meloniano contro il Mes: “Noi in verità volevamo non partecipare”.

 

E allora, fiutando la possibilità di compattare il fronte moderato, ecco che Matteo Renzi – convinto dallo stesso Franceschini ad abbandonare i sogni di governissimo, “perché il Pd al governo con Salvini non ci andrà” – è tornato a mordere il freno, a sondare gli umori e le ambizioni dell’entourage del Cav. Ma per ora attende, convinto alla cautela anche dai suoi senatori che nei giorni scorsi gli hanno suggerito di non forzare troppo la mano, ché anche se “politicamente continuare a sostenere il governo Conte è un errore”, la gente non capirebbe, ora, una fuga in avanti. “Non possiamo essere noi quelli che si fanno trovare col coltello in mano”, gli ha detto perfino il fido Francesco Bonifazi. E i consigli degli amici, di solito, si ascoltano.

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