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Dispacci per Conte

Valerio Valentini

Franceschini fa recapitare un messaggio al premier: “Così non reggiamo. Controlla i grillini”

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Roma. All’inizio nessuno c’ha visto del dolo: “Ché prima o poi – allarga le braccia Luciano D’Alfonso – era inevitabile che sbottassimo”. Solo dopo si è capito, rimettendo insieme i pezzi, dando un senso a certe stranezze lì per lì sottovalutate, che invece la premeditazione c’era tutta, e aveva a che fare con la voglia di Dario Franceschini di lanciare un messaggio neppure troppo criptico a Giuseppe Conte, e di farglielo recapitare con la romanesca sbrigatività di Bruno Astorre: “Ahò, guardate che qua la baracca non regge più”. E non è stato tanto il tono, a colpire. Ma l’autore: perché il senatore di Frascati è conosciuto da tutti per essere il più fidato dei soldati agli ordini del ministro della Cultura.

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Roma. All’inizio nessuno c’ha visto del dolo: “Ché prima o poi – allarga le braccia Luciano D’Alfonso – era inevitabile che sbottassimo”. Solo dopo si è capito, rimettendo insieme i pezzi, dando un senso a certe stranezze lì per lì sottovalutate, che invece la premeditazione c’era tutta, e aveva a che fare con la voglia di Dario Franceschini di lanciare un messaggio neppure troppo criptico a Giuseppe Conte, e di farglielo recapitare con la romanesca sbrigatività di Bruno Astorre: “Ahò, guardate che qua la baracca non regge più”. E non è stato tanto il tono, a colpire. Ma l’autore: perché il senatore di Frascati è conosciuto da tutti per essere il più fidato dei soldati agli ordini del ministro della Cultura.

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Certo, la durezza dell’intervento di Astorre, durante l’assemblea di gruppo di martedì, poco prima dell’informativa del premier all’Aula, è stata significativa: la sua assertività nell’evidenziare i ritardi nell’erogazione degli aiuti alle imprese, le incognite sulla cassa integrazione. E poi quel paragone, terribile, tra lo spread del 2011 che costrinse il Cav. a capitolare, e “i supermercati che tra qualche mese rischiano di essere presi d’assalto”, provocando la fine del governo Conte. Non che sia questo, l’obiettivo di Franceschini. Anzi, chi lo conosce bene dice che è proprio per prevenire quest’eventualità, per scongiurarla, che ha dato fiato alla protesta dei suoi. “Perché Dario vuole correggere, non cambiare”, dicono. Ma siccome le correzioni da apportare all’andazzo dell’esecutivo sono parecchie, era bene che il messaggio arrivasse forte e chiaro. E così, dopo l’intervento iniziale di Andrea Marcucci (“E’ stato un errore non votare oggi in Aula, non dare un mandato chiaro al premier in vista del Consiglio europeo per paura di spaccature tra i grillini”, ha detto il capogruppo), a confessare tutte le sue perplessità è stata Roberta Pinotti, altra franceschiniana di ferro. E a quel punto, dacché i pompieri abituali si dedicavano ad alimentare le fiamme del malcontento, tutti si sono sentiti invogliati a sfogarsi: contro gli alleati grillini refrattari alla ragionevolezza, contro il governo nel suo insieme e, tra gli altri, contro il ministro dell’Economia, quel Roberto Gualtieri descritto come succube della tecnocrazia di Via XX Settembre e dell’Abi, colpevole di svilire il ruolo dei gruppi parlamentari “costretti a votare a scatola chiusa degli scostamenti al deficit di mese in mese”. E così Mauro Laus e D’Alfonso, correste riformista, si sono accalorati contro le inesistenti politiche sul lavoro; Valeria Valente, orfiniana, ha rimproverato ai colleghi come lei li avesse avvertiti per tempo che già sulla giustizia si era ceduto troppo; Valeria Fedeli ha ribadito che no, sulla scuola così non va, e sull’approccio verso l’Europa meno che mai; Alessandro Alfieri, braccio destro del ministro Guerini, ha avvisato che tra sbandate filorusse e salamelecchi alla Cina, “qui stiamo rischiando di mettere in discussione la nostra collocazione internazionale”. Insomma, l’intera geografia del Pd in rivolta. Al punto che Tommaso Nannicini, cane sciolto che da tempo fa la voce critica nel partito, alla fine s’è ritrovato quasi sorpreso: “Manca poco e finirà che sarò l’unico a difendere questo governo”, ha sorriso.

 

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Il malumore della truppa, dunque: proprio questo ha fatto valere il capo delegazione del Pd. Utilizzando, cioè, la stessa scusa con cui Di Maio (e Conte) tentano spesso di legittimare le peggiori diavolerie grilline, “perché sennò non teniamo i nostri”. E non solo al Senato. Anzi, a Montecitorio la situazione è perfino più incandescente se martedì nel suo discorso Graziano Delrio, guardando negli occhi il premier, lo ha esortato ad andare a negoziare con Merkel e Macron con la statura di De Gasperi, “che convinse francesi e tedeschi a fare l’Europa in nome di una visione, e non del vittimismo”, mentre alcuni suoi colleghi si davano di gomito: “Sarà mica stato troppo diretto, Graziano? Forse se citava Churchill, Conte capiva meglio …”. Del resto, la questione del Mes è la prima su cui quella “correzione di rotta” invocata da Franceschini deve verificarsi: ovviamente. Perché anche qui, con la troppa ipocrisia si finisce per farsi del male, specie quando bisogna trattare con gli altri governi. “Noi – dice un eurodeputato dem, un po’ frustrato – sposiamo la proposta francese e un po’ quella spagnola, che sono pubbliche. E poi abbiamo elaborato una nostra proposta che però, siccome cita esplicitamente anche il Mes, non possiamo rivelare al Parlamento sennò i grillini insorgono. Ma vi pare normale?”.

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