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Logoramento letale

Valerio Valentini

Dibba si candiderà leader dei 5 stelle e scatena la fronda in Senato dove la maggioranza non c’è più

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Roma. Ai parlamentari che ha contattato per convincerli a firmare il suo scombiccherato appello fuori tempo massimo contro la conferma di Descalzi alla guida dell’Eni, Alessandro Di Battista ha garantito che no, nelle sue intenzioni non c’è affatto quello di far cadere il governo Conte. “Ma costringerlo a tenere in considerazione le posizioni del M5s, questo sì”. E però, se alla fine parecchi simpatizzanti del guerrigliero di Vigna Clara hanno rifiutato di sottoscrivere il post, è stato perché è parso evidente a tanti che le due cose potrebbero non conciliarsi. “Siamo senza guida da mesi, ed è giusto che il Movimento torni ad avere una direzione”, tuona non a caso Ignazio Corrao, sodale del Dibba e animatore della fronda anti Ursula a Bruxelles. Insomma, “Alessandro si candiderà – ci dice – a capo politico. Per noi è l’unica possibilità di rilancio”. Per il M5s chissà. Per il governo sicuramente no. E infatti Luigi Di Maio, nel suo intento di logorare Conte senza però contestualmente perdere l’unica poltrona che gli è rimasta, per ora tentenna. Ha lasciato che a stroncare l’iniziativa di Dibba fosse il reggente per caso Vito Crimi, che credendo davvero nell’incarico che ricopre domenica sera ha criticato “nel metodo e nel merito” la sedizione interna, mettendo la faccia sulle nomine concordate col Pd e il Quirinale. “Una decisione sofferta che ho preso con consapevolezza”, ha detto. E tuttavia, agli occhi di Federico D’Incà, che da ministro dei Rapporti col Parlamento tiene la contabilità alle Camere, non è sfuggito che tra i sostenitori del papello dibbattistiano ci sono ben dodici senatori. Che, per una maggioranza già in bilico, rischiano di essere, seppure non decisivi a livello di aritmetica, comunque un impaccio in più su una strada già dissestata.

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Roma. Ai parlamentari che ha contattato per convincerli a firmare il suo scombiccherato appello fuori tempo massimo contro la conferma di Descalzi alla guida dell’Eni, Alessandro Di Battista ha garantito che no, nelle sue intenzioni non c’è affatto quello di far cadere il governo Conte. “Ma costringerlo a tenere in considerazione le posizioni del M5s, questo sì”. E però, se alla fine parecchi simpatizzanti del guerrigliero di Vigna Clara hanno rifiutato di sottoscrivere il post, è stato perché è parso evidente a tanti che le due cose potrebbero non conciliarsi. “Siamo senza guida da mesi, ed è giusto che il Movimento torni ad avere una direzione”, tuona non a caso Ignazio Corrao, sodale del Dibba e animatore della fronda anti Ursula a Bruxelles. Insomma, “Alessandro si candiderà – ci dice – a capo politico. Per noi è l’unica possibilità di rilancio”. Per il M5s chissà. Per il governo sicuramente no. E infatti Luigi Di Maio, nel suo intento di logorare Conte senza però contestualmente perdere l’unica poltrona che gli è rimasta, per ora tentenna. Ha lasciato che a stroncare l’iniziativa di Dibba fosse il reggente per caso Vito Crimi, che credendo davvero nell’incarico che ricopre domenica sera ha criticato “nel metodo e nel merito” la sedizione interna, mettendo la faccia sulle nomine concordate col Pd e il Quirinale. “Una decisione sofferta che ho preso con consapevolezza”, ha detto. E tuttavia, agli occhi di Federico D’Incà, che da ministro dei Rapporti col Parlamento tiene la contabilità alle Camere, non è sfuggito che tra i sostenitori del papello dibbattistiano ci sono ben dodici senatori. Che, per una maggioranza già in bilico, rischiano di essere, seppure non decisivi a livello di aritmetica, comunque un impaccio in più su una strada già dissestata.

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“Un governo che deve reagire alla pandemia non potrà certo essere ostaggio dei veti di Di Battista”, sbuffa infatti Davide Faraone, capogruppo di Iv a Palazzo Madama. E forse sarà pure come ripete Matteo Renzi ai suoi parlamentari, e cioè che alla fine sul Mes non succederà nulla di che (“alla fine, Conte metterà il cappello sul Recovery fund voluto da Macron e salverà la faccia”, conferma Sandro Gozi), ma con un Di Battista tornato protagonista, e un Di Maio a metà del guado tra la Farnesina e la piazza, tra Roma e la Cina, il logoramento rischia di essere letale.

  

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Anche per questo Conte s’è mosso, chiedendo di fatto il soccorso di Forza Italia. Nella convinzione che coi voti degli azzurri possa puntellare la sua permanenza a Palazzo Chigi. “Ma ammesso che si faccia una simile operazione – dice Andrea Cangini, senatore carfagnano – non potrà certo esserne il premier attuale il beneficiato”. Anche perché Renzi lo ha già fatto sapere a chi di dovere, che se si fa un Conte-ter come preconizzato da Casalino lui se ne tirerebbe fuori. E a quel punto, i numeri per una eventuale maggioranza Ursula non ci sarebbero. “Finché c’è Conte, per noi non esiste alcuna ipotesi di convergenza reale”, sentenzia Giorgio Mulè. E però al Quirinale, finché non vedono una convergenza reale, non ci pensano neppure a vagliare ipotesi di nuovi esecutivi. Per mettere in piedi una maggioranza Ursula, con dentro Fi, Pd Iv, un pezzo di Leu e il (fritto) Misto, servono almeno trenta senatori e ottanta deputati grillini. Non è facile.

  

Però quando il Capo dello stato fa sapere che “non vuole crisi al buio”, finisce col convincere una discreta parte del Pd che è arrivato il momento di offrire al Colle un’alternativa credibile. E allora ecco la ritrovata intransigenza sull’europeismo, l’insofferenza di tanti nei confronti dell’immobilismo del governo e delle sbandate filocinesi di Di Maio. Ai suoi deputati scalpitanti, ieri Graziano Delrio predicava cautela: “Aspettiamo il Consiglio europeo e poi tiriamo le somme”. E d’altronde “tocca al Pd sancire l’inconsistenza di Conte”, insiste Mulè, “noi, per parte nostra, la andiamo denunciando da tempo”. Ma altro tempo ci vorrà, almeno secondo le previsioni di Renzi: “Ancora un mese, forse due”, ripete. Come a dire che intanto “il patto del Nazareno dormiente potrà essere risvegliato”, ma non per salvare Conte. “Se lo si farà – riflette il dem Enrico Borghi – sarà per assicurare un timone saldo durante la tempesta. Poi servirà un capitano che indichi la strada”. E in più d’un colloquio il nome che ricorre è sempre lo stesso: Dario Franceschini.

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