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Anche il sovranismo è molto influenzato

Claudio Cerasa

Il ritorno dei media mainstream, i muri che non servono, i mercati come cure. Tre storie esemplari sul coronavirus ci insegnano che per alzare le difese immunitarie della globalizzazione occorre denunciare con forza tutte le bufale della post verità

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Un articolo molto bello pubblicato ieri dal New York Times, scritto da un professore di Filosofia di nome Michael Marder, introduce nei ragionamenti legati alle conseguenze del coronavirus uno spunto di riflessione nuovo, gustoso e interessante, che ci permette di capire in che senso la storia del virus che sta purtroppo conquistando il mondo ci dice molto non solo della nostra capacità di governare un’epidemia ma anche della nostra capacità di capire il mondo all’interno del quale viviamo. Il coronavirus siamo noi, scrive il New York Times, perché, esattamente come il virus, tutti noi viviamo in un mondo interconnesso, dove i confini sono porosi, dove le barriere non esistono e dove le frontiere sono più simili a membrane viventi che a muri possenti. Ma il coronavirus siamo noi anche per un’altra ragione che vale la pena esplorare e che riguarda un ragionamento non banale che fotografa bene un fenomeno che la diffusione dell’influenza cinese sta rendendo se così si può dire virale.

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Un articolo molto bello pubblicato ieri dal New York Times, scritto da un professore di Filosofia di nome Michael Marder, introduce nei ragionamenti legati alle conseguenze del coronavirus uno spunto di riflessione nuovo, gustoso e interessante, che ci permette di capire in che senso la storia del virus che sta purtroppo conquistando il mondo ci dice molto non solo della nostra capacità di governare un’epidemia ma anche della nostra capacità di capire il mondo all’interno del quale viviamo. Il coronavirus siamo noi, scrive il New York Times, perché, esattamente come il virus, tutti noi viviamo in un mondo interconnesso, dove i confini sono porosi, dove le barriere non esistono e dove le frontiere sono più simili a membrane viventi che a muri possenti. Ma il coronavirus siamo noi anche per un’altra ragione che vale la pena esplorare e che riguarda un ragionamento non banale che fotografa bene un fenomeno che la diffusione dell’influenza cinese sta rendendo se così si può dire virale.

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E il punto in fondo è questo: buona parte dell’arsenale retorico che i professionisti della post verità hanno tentato in questi anni di utilizzare per imporre nel mondo una nuova forma di sovranità è sempre più chiaro che non rappresenta parte della soluzione dei problemi ma rappresenta una parte dei problemi. Sul ritorno della scienza e sulla voglia disperata di competenza abbiamo già scritto ma accanto a questo fenomeno ce n’è certamente un altro che riguarda una cura particolare che milioni di persone in giro per il mondo stanno sperimentando in queste ore, per provare a orientarsi nella stagione dei virus globali: l’informazione. Un sondaggio diffuso ieri da Swg, relativo al nostro paese, ha riportato un dato significativo legato ai canali di informazione che in casi come questi gli italiani tendono a considerare credibili. Al primo posto c’è la Protezione civile (78 per cento), al secondo posto il ministero della Salute (76 per cento), al terzo posto i siti istituzionali (73 per cento), poi in seguito le reti tv nazionali (56 per cento), i quotidiani (47 per cento) e in generale i social media (16 per cento).

 

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Nel caso specifico, evidentemente, per “social media” si intende il flusso di informazioni derivato da una pesca casuale avvenuta sulla rete, da testate non giornalistiche, e non ci vuole molto a capire che l’emergenza sanitaria sta di fatto contribuendo a spazzare via, in modo tanto selettivo quanto progressivo, quell’ideologia parapopulista che aveva trasformato la rete, fake news comprese, nel veicolo di una nuova verità assoluta, da far valere sempre contro le bugie dei media mainstream. Il coronavirus ci sta ricordando che un’informazione senza controllo – così come le teorie del complotto: avete notizia dei no vax? – può diventare un pericolo non solo per la nostra democrazia ma anche per la nostra salute. E non è un caso se nella fase che stiamo vivendo la retorica contro i media mainstream non faccia particolare presa nella testa degli elettori – il Donald Trump che accusa i media mainstream di strumentalizzare il virus per fare un favore ai democratici è un Trump che per la prima volta da tempo sembra parlare una lingua distante dal popolo e non è un caso che un politico più attrezzato di Trump, come Boris Johnson, abbia costretto i suoi ministri a interrompere un lungo sciopero delle interviste con la Bbc e a presidiare dalla mattina alla sera, causa influenza, i canali della odiatissima tv pubblica. 

 

Il coronavirus ci sta ricordando che per alzare le difese immunitarie della nostra democrazia dobbiamo imparare a distinguere, nel mondo dell’informazione, ciò che è solo virale da ciò che è semplicemente reale. E la stessa dose di praticità, in un certo senso, dovrebbe suggerirci che per vivere in una società globale per sentirsi protetti non occorre evocare gli spettri degli stati nazionali e sovrani. “Dobbiamo imparare a vivere in una realtà che può, in qualsiasi momento, diventare virale”, scrive il New York Times, e nel farlo ricorda che rispondere a emergenze come questa provando a sigillare i propri paesi è come voler ingaggiare delle lotte contro i mulini a vento. Ed è come non voler capire che ciò che serve per governare meglio le pandemie, le crisi economiche, le politiche di sicurezza è la capacità dei singoli stati di non isolarsi, di migliorare la cooperazione internazionale, di essere integrati e di creare standard comuni capaci di rafforzare le governance transnazionali. A questi due spunti di riflessione se ne può aggiungere un altro offerto da un intervento, anch’esso molto bello, pubblicato ieri sul Wall Street Journal a firma di Adena Friedman, presidentessa del Nasdaq, che in poche righe smonta un’altra formidabile post verità: per proteggerci dai virus della globalizzazione occorre combattere il capitalismo selvaggio.

 

Ah sì? Friedman sostiene che i mercati non solo sono resistenti alle crisi più di quanto si possa pensare – dal 1994 a oggi ci sono stati almeno dieci eventi sanitari significativi che hanno sconvolto ma solo per pochi mesi la Borsa americana – ma ricorda anche che i mercati sono parte della soluzione, e non del problema, perché nei momenti di difficoltà allocano le loro risorse laddove le risorse servono. “Negli ultimi cinque anni – dice Friedman – 426 nuove aziende sanitarie e biotecnologiche si sono quotate al Nasdaq e insieme hanno raccolto più di 40 miliardi di dollari, con un ritorno medio per gli investitori del 23 per cento nel primo anno. Una di loro, Moderna Inc., ha annunciato il 24 febbraio di aver spedito fiale contenenti un primo lotto di vaccino contro il coronavirus al National Institute of Allergy and Infectious Diseases. Per aprile sono previste prove cliniche che coinvolgeranno circa 20-25 volontari sani. Da lunedì, le azioni di Moderna sono aumentate di quasi il 50 per cento dal 3 febbraio”. Queste tre piccole storie ci insegnano che i virus della globalizzazione non si curano scappando dalla globalizzazione ma si curano imparando a fare quello che i professionisti della post verità si dimenticano spesso di fare: aiutarci semplicemente a riconoscere i vaccini veri da quelli fasulli.

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