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Il coronavirus e la terza repubblica

Michele Salvati

Come siamo arrivati fin qui, e ora a chiederci se l’emergenza rafforzerà il governo o aprirà le porte all’uomo forte. La sinistra che avrebbe bisogno di uno ZingaRenzi. Appunti di un riformista

Vorrei ripartire da L’Apocalisse della democrazia italiana (il Mulino, 2019), l’illuminante ricerca di Schadee, Segatti e Vezzoni su come il nostro sistema politico si è modificato dopo le elezioni del 2013 e 2018. Ripartire, perché ne ho già fatto una lunga recensione sul Foglio del 22 gennaio. Ridotte all’essenziale, queste sono le principali conclusioni della ricerca.

 

1. L’insoddisfazione dei cittadini nei confronti dei partiti politici (e delle policies che attuano o non attuano quando sono al governo) è un tratto antico del nostro paese, che lo distingue da altri in cui questa insoddisfazione è minore. Una insoddisfazione che era già esplosa – caso unico in Europa – nella crisi di Mani pulite: questa aveva spazzato via i più importanti partiti della Prima Repubblica, dato origine ad altri radicalmente nuovi, indotto un profondo rinnovamento della rappresentanza parlamentare e si era conclusa con l’assestamento del sistema su uno scontro bipolare tra due coalizioni, destra e sinistra; rectius, berlusconiani e antiberlusconiani.

2. Questo assestamento, la cosiddetta Seconda Repubblica, è durato poco più di vent’anni: era già stato compromesso dalle elezioni del 2013 ed è crollato in quelle del 2018. Risulta però dalla ricerca che le insoddisfazioni degli elettori su come il sistema politico funzionava – immigrazione, economia, welfare, corruzione e altre – erano proprio le stesse sulle quali più tardi i partiti populisti basarono la loro critica devastante e ottennero uno straordinario successo. Di qui un’ovvia domanda:

3. durante i vent’anni della Seconda Repubblica ci furono sette elezioni politiche, sei se escludiamo quella del 2013 che già iniziò a destabilizzare il sistema. Come mai quelle insoddisfazioni non emersero prima? La risposta è duplice: (a) perché fino alla grande recessione del 2008-2013 (metto insieme due recessioni di origine diversa) la situazione di crisi economica, e soprattutto le misure che vennero adottate per affrontarla (Monti), non avevano ancora suscitato un risentimento esplosivo in larghi strati della popolazione; (b) ma soprattutto perché non si erano ancora presentati sulla scena partiti politici in grado di sfruttare elettoralmente l’insoddisfazione dei cittadini, che erano “costretti” ad astenersi o a votare una delle due coalizioni che si contendevano il governo. Cosa che facevano, sia a destra che a sinistra, “turandosi sempre di più il naso”. Una via di fuga da questa scelta obbligata non esisteva.

4. Fu Grillo, il suo “vaffa” e l’alleanza con Casaleggio, a offrire una via di fuga classicamente populista. Destra e sinistra non esistono, sono finzioni create da una “casta” che non vuole cedere il potere al popolo. Ed è in nome di una “vera” democrazia, ora possibile con i nuovi mezzi di comunicazione, una democrazia con mandati temporanei e revocabili, che Grillo e Casaleggio riuscirono a raccogliere le grandi masse che votarono per i Cinque stelle nel 2013 e ancor di più nel 2018. E questo sulla base di un messaggio sufficientemente radicale e innovativo da poter essere accolto senza percepire alcuna contraddizione da elettori che in precedenza si erano schierati su due fronti opposti. Con una insoddisfazione ora trasformata in rabbia, gli elettori erano pronti a un salto nel buio, a tutto pur di cacciar via chi li aveva governati.

5. Fu dunque il Movimento 5 stelle quello che distrusse il precedente assetto politico. Nel 2013 la nuova Lega era ancora in corso di trasformazione, anche se ne aveva posto le premesse, rifiutandosi di sostenere l’esperimento Monti, a differenza di Forza Italia. Nel 2018 era già riuscita a trasformarsi in un partito carismatico e populista e infatti balzò al 17 per cento dei consensi. Furono l’esperienza del governo gialloverde, la presenza nella Lega di un leader carismatico e abile, la sua insistenza su un tema di grande popolarità – a differenza dei temi più confusi e controversi agitati da Di Maio – a far registrare nei sondaggi e nelle elezioni regionali e comunali tra il 2018 e il 2020 la crescita della Lega a spese dei Cinque stelle: il “capo politico” del Movimento non fu mai in grado di diventarne il vero e incontrastato leader.

6. Ma queste ultime sono considerazioni che non si trovano nella ricerca, rigorosamente limitata a una analisi del terremoto elettorale 2013-2018. Quello che la ricerca illustra è la dinamica della rottura dell’equilibrio politico della Seconda Repubblica, le ragioni del passaggio in massa di elettori del Pd e di Forza Italia ai Cinque stelle e, in misura minore, alla Lega. Se poi, nelle prossime elezioni politiche, la maggioranza dei voti ottenuti dai Cinque stelle nel 2018 si sposterà verso la Lega e si ritornerà a uno schema Destra/Sinistra, con la prima ora nettamente prevalente sulla seconda, è un tema che un lavoro metodologicamente rigoroso non può affrontare.

 

Tutto è infatti ancora in mente Dei, anche se molti indizi puntano in questa direzione. Utilizzando le categorie adottate da Segatti e colleghi più che la loro analisi puntuale, è possibile avanzare un educated guess su che cosa ci aspetta nelle prossime elezioni? Presto o tardi, al massimo nella primavera del 2023, nuove elezioni politiche dovranno pur esserci, e due anni sono un tempo lunghissimo in una situazione così turbolenta come la nostra: c’è ancora la possibilità che la sinistra possa prevalere in un contesto di legge elettorale proporzionale? (Non vedo infatti come si possa discutere seriamente di una riforma costituzionale ed elettorale in senso maggioritario nelle attuali condizioni: il “sindaco d’Italia” è per ora un pio desiderio più che una proposta). Comincio allora a elencare i vantaggi di cui godono le destre.

 

a) Il primo è quello di trovarsi all’opposizione e di poter sfruttare populisticamente l’insoddisfazione degli elettori.

b) Questa insoddisfazione – se non vera e propria rabbia – sembra destinata a permanere: non si vedono segni che la situazione economico-sociale migliori – semmai l’opposto – e le misure adottate dal governo sono insufficienti a trasmettere all’elettorato l’impressione che la tendenza al declino si sia interrotta.

c) Lo spettacolo di incertezza e conflitto nella coalizione governativa (Pd/Cinque stelle, Pd/Iv, per tacere dei conflitti interni allo stesso Pd) sembra creato ad arte per screditare qualsiasi futura coalizione che si basi su queste forze politiche.

d) E poi, e soprattutto, la presenza di un leader forte e abile nella coalizione di Destra e la sua assenza in quella di Sinistra. Ci sono certo tensioni anche nella prima (tra Giorgetti e Salvini nella Lega, tra Lega e moderati di Forza Italia e ora anche tra Lega e Fratelli d’Italia). Ma finché la Destra resta all’opposizione e non è obbligata a definire con precisione misure di governo mi sembra che la leadership di Salvini sia inattaccabile. Qual è il leader della sinistra?… Un consolato, uno “ZingaRenzi”, come chiede Cerasa sul Foglio del 24 febbraio? E’ sufficiente porre la domanda per avere la risposta: non c’è, la domanda è retorica.

 

Quelli che ho elencato sono vantaggi formidabili, ma se il governo riesce a durare fino al 2023, in due anni possono avvenire molte cose attualmente imprevedibili. Innanzitutto bisogna distinguere tra una vittoria delle destre ai punti e un vero e proprio ko. In un sistema proporzionale le destre potrebbero avvicinarsi alla maggioranza assoluta ma non raggiungerla. Dunque una vittoria ai punti: in questo caso esisterebbe la possibilità di una alleanza tra sinistra e forze centriste. E forse potrebbe tornare un “momento Renzi”, se l’ex presidente del Consiglio ha veramente intenzione di ritentare la sorte con la riforma costituzionale e un sistema elettorale maggioritario. Ripetendo in un diverso contesto lo schema fallito con la riforma elettorale e costituzionale del 2016.

 

Convinto che il Pd – nell’alleanza con i Cinque stelle che aveva contribuito a far nascere – sarebbe diventato una casa inospitale per lui e il suo riformismo liberale, Renzi ha abbandonato il Partito democratico e fondato un nuovo partito: una decisione rischiosa che ha molto indebolito il fronte riformista interno al Pd e accentuato il risentimento nei suoi confronti. Ma in una situazione di stallo, la presenza di un piccolo partito centrista, necessario per costruire una maggioranza, un partito che si pone in una posizione intermedia tra la sinistra e la destra non populista, guidato da un leader il quale apprezza la revisione della forma di governo che era il nucleo della fallita riforma costituzionale delle destre del 2006, potrebbe non trovare ostilità preconcette nelle destre non populiste (… semmai dissensi maggiori nelle sinistre). E poi non è solo Renzi a mirare a una posizione di ago della bilancia: il “centro” diverrebbe un luogo molto affollato se la soglia di esclusione non riducesse l’assembramento: e una soglia alla tedesca (5 per cento) è piuttosto alta. Dato che i dissensi tra i concorrenti impediscono loro di mettersi insieme, non è dunque da escludere che nessuno degli aspiranti centristi riesca a superare la soglia… e il centro svanisca.

 

È inutile continuare: lo scopo era solo quello di mostrare quanto sia difficile fare congetture su un futuro irrimediabilmente incerto e in sistema così complesso come quello politico. E di rinnovare l’apprezzamento per il rigore della ricerca di Segatti e colleghi, che hanno detto quanto si poteva dire sulla base dei dati disponibili. Solo una settimana fa, chi mai avrebbe pensato, ragionando di politica, agli effetti di un’epidemia di coronavirus in Italia? Effetti le cui ripercussioni – sicuramente molto dannose sul piano economico – probabilmente saranno assai rilevanti anche su quello politico. Ma in quale direzione? In quella di rafforzare la coesione della società con lo stato e le sue istituzioni, e dunque il governo in carica? O, all’opposto, in quella di indebolire ulteriormente i legami tra stato e società civile e accrescere la domanda per un “uomo forte”? Purtroppo questa seconda direzione sembra più probabile se l’allarme contagio non si ridimensiona rapidamente.

 

Come riformisti, come liberali di sinistra, dobbiamo essere consapevoli della gravità della situazione, grave per la sinistra e soprattutto grave per il paese, perché per ora non si vedono vie d’uscita dal declino in cui l’Italia si è da tempo inoltrata. La sinistra liberale e riformista si è trovata spesso in una situazione di vox clamantis in deserto ed è sopravvissuta facendo appello alle sue doti di testardaggine, coraggio e pazienza. La via per estirpare populismo e sovranismo sarà difficile, richiedendo – in democrazia – un profondo cambiamento negli orientamenti popolari che sono il terreno di coltura del populismo. Ma questo cambiamento è legato all’offerta politica, a un partito e a un leader che riescano a convincere gli italiani che la risposta alla loro domanda di maggior crescita, benessere ed efficienza non è quella di un uomo forte e di rimedi illusori, ma quella di una democrazia capace di decidere all’interno dei vincoli che ci impongono la scarsità delle nostre risorse economiche e istituzionali, il rispetto dei principi di una democrazia liberale, le alleanze europee e internazionali in cui siamo inseriti.

 

Forse il momento per questo rivolgimento di opinioni e di aspettative non è ancora arrivato. Forse gli italiani devono sperimentare che cosa significhi essere governati da una coalizione di destra populista e sovranista. E forse la sinistra non è ancora pronta a identificare un leader che la unifichi sulla base di un messaggio convincente, insieme affascinante e realistico: quello “ZingaRenzi” (… ma fuso in una sola persona!) di cui sogna Cerasa.

 

Forse.ì