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Così il caos libico può portare alle grandi intese

Valerio Valentini

Passato il torpore strategico ecco l’ipotesi per salvare il governo: unità nazionale (con Forza Italia)

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Roma. La tentazione è così scoperta che Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia che conosce bene lo scacchiere politico internazionale, non ci gira intorno: “Non si usi questa emergenza nazionale per giustificare un’operazione di trasformismo”, dice il pretoriano di Giorgia Meloni. La quale, prendendo subito le distanze dall’uccisione di Suleimani e dal relativo elogio di Matteo Salvini all’avventatezza di Trump, ha provato a detonare il rischio che anche Giancarlo Giorgetti vede concreto: e cioè che proprio intorno alla crisi libica e al precipitare degli eventi in medio oriente, l’idea del governo delle larghe intese, che tagli fuori Lega e FdI, prenda forma e consistenza.

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Roma. La tentazione è così scoperta che Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia che conosce bene lo scacchiere politico internazionale, non ci gira intorno: “Non si usi questa emergenza nazionale per giustificare un’operazione di trasformismo”, dice il pretoriano di Giorgia Meloni. La quale, prendendo subito le distanze dall’uccisione di Suleimani e dal relativo elogio di Matteo Salvini all’avventatezza di Trump, ha provato a detonare il rischio che anche Giancarlo Giorgetti vede concreto: e cioè che proprio intorno alla crisi libica e al precipitare degli eventi in medio oriente, l’idea del governo delle larghe intese, che tagli fuori Lega e FdI, prenda forma e consistenza.

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Meglio, allora, togliere ogni “alibi”, come lo definisce Urso: “Da patrioti quale ci onoriamo di essere, noi siamo disponibili a salvare gli interessi del paese, ma non a salvare questo governo o, magari, a legittimarne uno nuovo”. Spauracchio che evidentemente appare concreto, forse anche per quella certa insistenza con cui ha preso a circolare l’indiscrezione che vorrebbe Franco Frattini come prossimo inviato speciale della Farnesina in Libia. Una promozione che avrebbe, certo, tutta una serie di giustificabili motivazioni tecniche, ma che pure risulterebbe politicamente clamorosa. E non solo perché nel Pd c’è chi, come Piero Fassino, già sgomita, per quello stesso incarico, ma perché, insomma, bisogna immaginarselo Luigi Di Maio che elegge a suo diretto consigliere un ex ministro degli Esteri del Cav. (uno che Beppe Grillo definiva, a seconda dei casi e delle convenienze, “portatore di morte” o “replicante”), e che ancora negli scorsi mesi si dava da fare come consulente privilegiato di Salvini e Giorgetti sulle questioni europee, prima della crisi di agosto.

 

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Di certo c’è che Frattini e Di Maio si sono sentiti, nei giorni scorsi: se poi quello scambio di vedute sul rebus libico diventasse il preludio a un incarico ministeriale, allora significherebbe che lo stesso capi del M5s vuole dare un segnale distensivo nei confronti di quelle truppe di “responsabili” che restano, per ora, allertate ma non inquadrate nei ranghi della maggioranza. “Responsabili è una brutta parola”, si schermisce Paolo Romani, il senatore azzurro che a Palazzo Madama sta guidando l’operazione, “e di certo noi non ci stiamo scilipotizzando. Ho come la sensazione che ciascuno dei protagonisti della scena politica, dalle nuove formazioni come la nostra o quella di Renzi fino ai partiti più strutturati come il Pd, debbano passano per la banca del tempo”. Senza fretta, insomma. Anche se, a giudicare dalla parole dei tessitori più o meno occulti di Palazzo Madama, non è da escludersi che proprio il caos diplomatico libico acceleri le grandi manovre.

 

E allora ecco che Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, confessa che “da mesi in Forza Italia c’è un dibattito serrato tra chi non vuole andare a rimorchio di Salvini e chi pensa di trasferirsi con il nuovo leader”. E aggiunge: “E’ evidente che il Pd non avrebbe nulla in contrario se alcuni parlamentari decidessero di avvicinarsi alla maggioranza, tanto più in momento come questo in cui gli interessi del paese in campo internazionale richiedono la massima compattezza delle forze che amano davvero l’Italia”. Eccolo, dunque, l’“alibi” evocato da Urso.

  

Un alibi che risulta tanto più consistente quanto più si pensa allo sgretolamento progressivo del M5s, che potrebbe costringere i vertici grillini a ritenere necessario quello che pure non si ritiene auspicabile: e cioè accettare il soccorso azzurro. I numeri, del resto, sono impietosi, e le possibili espulsioni dei parlamentari non in regola coi rimborsi li rendono ancora più incerti. Non a caso il ministro Fabiana Dadone, unico esponente di peso nel collegio dei probiviri, nella riunione di ieri aveva il mandato di individuare quello che Sergio Battelli, ex tesoriere del gruppo alla Camera, definisce il “punto di non ritorno”, e cioè il numero massimo di espulsioni che non pregiudichi gli equilibri della maggioranza. D’altronde, Di Maio è esausto di dovere annaspare tra rimborsi e rendiconti mentre è chiamato ad arrabattarsi tra ambasciatori e capi tribù africani. Ieri, mentre decollava alla volta di Bruxelles per il vertice europeo sulla Libia, gli toccava rispondere a Dino Giarrusso che gli segnalava la lettera con cui un anonimo deputato siciliano, tale Santi Cappellani, annunciava il suo addio al M5s. Era da ore su tutte le agenzie, e Di Maio, ignaro, si chiedeva se fosse già pubblica.

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