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Lo stop al salvataggio delle ferrovie sudest è un guaio per Ilva e BpB

Annarita Digiorgio

La Corte del Lussemburgo ha riconosciuto come aiuti di stato mai notificati alla Commissione UE entrambe le operazioni effettuate nel 2016 a favore di Fse

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Taranto. A gennaio 2016 l’allora ministro dei Trasporti Delrio commissariò le Ferrovie sud-est, a seguito dell’apertura di un’indagine a carico degli amministratori e dirigenti la cui allegra gestione aveva portato a un crack di 350 milioni di euro. Ferrovie sud-est (Fse) è l’azienda di stato da sempre affidataria per la regione Puglia della gestione e manutenzione di un’infrastruttura ferroviaria (estesa per 474 km) e dei servizi di trasporto pubblico passeggeri su ferro e gomma. Con il commissariamento, finalizzato a un piano di risanamento industriale e successiva messa in vendita, il governo Renzi stanziò 70 milioni di euro a fondo perduto per assicurarne la continuità produttiva. Il contributo non fu sufficiente ad evitare che qualche mese dopo la procura di Bari ne chiedesse il fallimento. A quel punto Delrio decise il salvataggio dell’azienda con un decreto che ne trasferì la proprietà dal ministero dei Trasporti a Ferrovie dello Stato (in seno al Mef). In cambio, Fsi non ebbe a versare alcun corrispettivo, ma l’impegno a rimediare a ogni disequilibrio patrimoniale. Al contempo furono respinte le tre proposte arrivate da privati, che avevano manifestato attenzione all’acquisizione di Fse.

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Taranto. A gennaio 2016 l’allora ministro dei Trasporti Delrio commissariò le Ferrovie sud-est, a seguito dell’apertura di un’indagine a carico degli amministratori e dirigenti la cui allegra gestione aveva portato a un crack di 350 milioni di euro. Ferrovie sud-est (Fse) è l’azienda di stato da sempre affidataria per la regione Puglia della gestione e manutenzione di un’infrastruttura ferroviaria (estesa per 474 km) e dei servizi di trasporto pubblico passeggeri su ferro e gomma. Con il commissariamento, finalizzato a un piano di risanamento industriale e successiva messa in vendita, il governo Renzi stanziò 70 milioni di euro a fondo perduto per assicurarne la continuità produttiva. Il contributo non fu sufficiente ad evitare che qualche mese dopo la procura di Bari ne chiedesse il fallimento. A quel punto Delrio decise il salvataggio dell’azienda con un decreto che ne trasferì la proprietà dal ministero dei Trasporti a Ferrovie dello Stato (in seno al Mef). In cambio, Fsi non ebbe a versare alcun corrispettivo, ma l’impegno a rimediare a ogni disequilibrio patrimoniale. Al contempo furono respinte le tre proposte arrivate da privati, che avevano manifestato attenzione all’acquisizione di Fse.

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Il “no” fu espresso in assemblea con la motivazione che una privatizzazione avrebbe richiesto una procedura a evidenza pubblica, con allungamento dei tempi e incongruità dell’offerta. “Il governo – disse Delrio – ha voluto una legge per far fronte all’emergenza. Si colpisca e si punisca chi ha sbagliato. Ma la società non può fallire perché metterebbe nei guai il personale, i fornitori e le centinaia di migliaia di utenti”. Il salvataggio fu lodato anche dalla regione Puglia, il cui presidente Emiliano, che in quel periodo non lesinava critiche al governo Renzi, non mancò invece di ringraziare Delrio. A distanza di 3 anni, la Corte Europea ha condannato l’Italia per aiuto di Stato. Con sentenza del 19 dicembre 2019 la Corte del Lussemburgo ha riconosciuto come aiuti di stato mai notificati alla Commissione UE entrambe le operazioni effettuate nel 2016 a favore di Fse. Lo stanziamento di 70 milioni e il trasferimento della sua intera partecipazione a Ferrovie dello Stato. Nell’ottobre del 2016 infatti, una delle tre società private che aveva manifestato interesse, la Arriva Italia (Gruppo Deutsche Bahn, Cotrap e Ferrotramviaria) aveva proposto ricorso al Tar e poi al consiglio di stato contro il decreto Delrio. Il consiglio di stato ha deciso di interrogare la Corte di giustizia con un rinvio pregiudiziale, per sapere se le misure previste dal decreto costituissero un aiuto di Stato e, in questo caso, se l’aiuto fosse illegale. La corte, il 20 dicembre, ha stabilito che “tanto lo stanziamento di una somma di denaro in favore di un’impresa pubblica che versa in gravi difficoltà finanziarie, quanto il trasferimento dell’intera partecipazione detenuta da uno stato membro nel capitale di detta impresa a un’altra impresa pubblica, senza alcun corrispettivo, ma in cambio dell’obbligo per quest’ultima di rimuovere lo squilibrio patrimoniale della prima impresa, possono essere qualificati come aiuti di Stato e spetta al giudice del rinvio trarre tutte le conseguenze derivanti dal fatto che tali aiuti non sono stati notificati alla Commissione europea e devono pertanto essere considerati illegittimi”. Nel caso specifico, secondo la Corte l’impatto potenziale sulla concorrenza è rivelato dal fatto che Arriva Italia e le altre società ricorrenti non hanno potuto concorrere per l’acquisto.

 

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Sarà ora il giudice italiano a doverne trarre le conseguenze attraverso l’applicazione del diritto nazionale, sia per quanto riguarda l’invalidità degli atti sia per il recupero della somma stanziata. In particolare il consiglio di stato dovrà decidere se procedere semplicemente alla richiesta di restituzione del contributo finanziario oppure, più radicalmente, ad una procedura di evidenza pubblica per l’alienazione delle partecipazioni. Non solo per questo il Governo farebbe bene ad analizzare questa vicenda. Del resto se riecheggia quelle del salvataggio della Banca Popolare di Bari o di Ilva, è solo perché vengono tutte dalla Puglia. Non come Alitalia.

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