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Il falso mito del voto verde. Parlano i sondaggisti Noto e Pregliasco

Samuele Maccolini

Tutti vogliono intercettarlo, ma vale solo il 2 per cento. L’ambientalismo corrode i grandi partiti, ma la sinistra è alla ricerca di un tema che possa dettare l’agenda in risposta al populismo

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C’è l’ex ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, in procinto di formare un nuovo gruppo ambientalista alla Camera (dovrebbe chiamarsi “Eco”) in cui potrebbero approdare i prossimi fuoriusciti grillini. Poi c’è Civati, che ci riprova dopo il risultato infelice delle europee, e lancia un nuovo partito ecologista. Ma c’è anche il Pd, che nel nuovo statuto inserisce la sostenibilità ambientale, in linea con gli obiettivi di Agenda 2030 delle Nazioni Unite. E il M5s che, se anche spesso lo dimentica, tra le sue stelle ospita ancora quella dell’ambiente. Il campo ambientalista non è mai stato così fitto. Sono in molti, tra partiti e leader politici, a scommettere sul voto verde, nella speranza di intercettare l’entusiasmo delle migliaia di giovani italiani che nel 2019 sono scesi in strada a intervalli regolari per protestare contro il cambiamento climatico. Un fermento ecologista elogiato anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante discorso di fine anno. Ma quanto vale, in termini elettorali, il voto verde? “In Italia c’è uno zoccolo duro di ambientalisti che sia aggira attorno al 2 per cento degli elettori”, dice Antonio Noto, presidente di Noto Sondaggi. “Il voto ecologista in senso stretto, essendo così marginale, è quasi ininfluente. Nel dibattito pubblico l’ambientalismo è quasi ignorato. E’ vero, ci sono anche grandi partiti che sposano la causa ambientale, ma è solo greenwashing”. 

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C’è l’ex ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, in procinto di formare un nuovo gruppo ambientalista alla Camera (dovrebbe chiamarsi “Eco”) in cui potrebbero approdare i prossimi fuoriusciti grillini. Poi c’è Civati, che ci riprova dopo il risultato infelice delle europee, e lancia un nuovo partito ecologista. Ma c’è anche il Pd, che nel nuovo statuto inserisce la sostenibilità ambientale, in linea con gli obiettivi di Agenda 2030 delle Nazioni Unite. E il M5s che, se anche spesso lo dimentica, tra le sue stelle ospita ancora quella dell’ambiente. Il campo ambientalista non è mai stato così fitto. Sono in molti, tra partiti e leader politici, a scommettere sul voto verde, nella speranza di intercettare l’entusiasmo delle migliaia di giovani italiani che nel 2019 sono scesi in strada a intervalli regolari per protestare contro il cambiamento climatico. Un fermento ecologista elogiato anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante discorso di fine anno. Ma quanto vale, in termini elettorali, il voto verde? “In Italia c’è uno zoccolo duro di ambientalisti che sia aggira attorno al 2 per cento degli elettori”, dice Antonio Noto, presidente di Noto Sondaggi. “Il voto ecologista in senso stretto, essendo così marginale, è quasi ininfluente. Nel dibattito pubblico l’ambientalismo è quasi ignorato. E’ vero, ci sono anche grandi partiti che sposano la causa ambientale, ma è solo greenwashing”. 

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In effetti, “se guardiamo ai dati, è estremamente bassa la percentuale di italiani che scelgono un partito in base alle sue posizioni sull’ambiente”, dice Lorenzo Pregliasco, fondatore di YouTrend. “Secondo il mio punto di vista c’è una sovrastima di questa tematica rispetto al peso che effettivamente ha nell’opinione pubblica”, continua Pregliasco. “Lo dimostra anche lo scarso risultato di Europa verde alle elezioni europee di maggio (2,29 per cento), quando il movimento dei Fridays for future era al picco della popolarità in Italia, dopo lo sciopero mondiale per il clima del 15 marzo”. Ma allora perché partiti grandi e piccoli continuano a dirsi ambientalisti o comunque favorevoli a politiche ecologiste? Da un lato “i partiti di sinistra sono alla ricerca di un tema forte, di legittimazione, che possa dettare l’agenda in risposta ad altre questioni che fino ad adesso sembrano più appannaggio della destra o dei movimenti sovranisti”, spiega Pregliasco. Dall’altro, “i leader politici confondono l’attenzione degli elettori nei confronti dell’ambiente con il consenso politico”, dice Noto.

 

E proprio questo è l’errore che ha commesso Europa verde. Anche Civati e il suo nuovo partito dovranno tenerne conto. Perché non c’è dubbio che fondare un partito monotematico sia più semplice che sviluppare una piattaforma più ampia. Ma in Italia la formula monotematica non ha mai attecchito. “La formazione del consenso non si crea esclusivamente focalizzandosi su un tema, bensì concentrandosi su una complessità di tematiche. E’ chiaro che la causa ambientale da sola non è abbastanza per convincere l’elettore a votare per un certo partito piuttosto che per un altro”, dice Noto. Inoltre, “in Italia il tema ambientale è meno saliente che in altri paesi europei, anche perché tali preoccupazioni, non essendo delle priorità, tendenzialmente sono posposte a quelle economiche – spiega Pregliasco – Viste le condizioni economiche della penisola è normale che, in linea con i paesi del sud Europa, l’ambientalismo non trovi spazio nelle preoccupazioni dell’italiano medio”.

 

Quando ci va di mezzo il portafoglio, dunque, l’ambiente passa in secondo piano. Lo hanno dimostrato, recentemente, anche le polemiche che hanno accompagnato la stesura della legge di Bilancio 2020. “La plastic tax è stata in pochi giorni, prima accantonata, poi ridimensionata, anche per via di timori elettorali legati alle prossime elezioni in Emilia Romagna, regione che ha un’importantissima industria legata alla plastica”, dice Pregliasco.

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E’ la doppia faccia dell’ambientalismo: utile a racimolare voti quando non si è al potere; spinosa questione da gestire quando si siede a Palazzo Chigi. “Governare con sensibilità ecologica significa che, in nome dell’ambiente, altre priorità scendono in secondo piano. E non sempre i cittadini ne sono contenti”, dice Pregliasco. Per questo motivo, a portare la croce saranno sempre i partiti più grandi che governano o ambiscono a governare. Non certo i partiti più piccoli. Civati e Fioramonti, in questo senso, possono rigettarsi nell’agone politico perché poco o nulla hanno da perdere: la rivoluzione verde rimane, sì. Ma solo come pretesto per fare politica.

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