Matteo Salvini giovedì sera al PalaDozza di Bologna (foto LaPresse)

Salvini fa il filo a Bologna stanca di rosso

Salvatore Merlo

Qui la Lega non passa, dice la città ricca che abita i colli e vota da sempre “quelli lì”. Ma qui è pieno di immigrati, dice chi va per le strade. Per la prima volta il voto è in bilico, chi prende la Dotta prende tutto. Matteo corteggia i moderati, il Pd ha paura

Bologna. C’è un vecchio adagio che recita così: “Scendendo da nord lungo la via Emilia chiedete da bere. Finché vi danno acqua siete in Emilia, quando riceverete del vino sarete in Romagna”. E i bolognesi intendono così descrivere un po’ se stessi, cioè quelli che offrono l’acqua anziché il vino per un culto parsimonioso della moderazione, che diventa filosofia e indole, politica e antropologia. “I bolognesi non sono sanguigni come i romagnoli. Per questo non sono sicuro che qui Salvini possa sfondare”, mi dice allora Francesco Bernardi, imprenditore e mecenate bolognese, il fondatore di Illumia, la grande azienda dell’elettricità, gentiluomo colto e riflessivo, una delle personalità più interessanti (e certamente cospicue) di una città in cui anche le forti passioni politiche si sono sempre fatte concertative, gommose proprio com’era Romano Prodi, insomma ben organizzate sotto la grande regia del partito quadrinominato: il Pci-Pds-Ds-Pd. “Qua persino i barboni hanno avuto la loro associazione di categoria e il loro giornale”.

 

E allora all’università, come nelle strade sui colli, dove vive la Bologna bene, dicono che “qui il malumore salviniano non passa”, la città è ricca, tollerante, di sinistra, e d’altra parte è la città della piazza delle “sardine”, la grande manifestazione antileghista di giovedì sera in piazza Maggiore. Così tutti sanno, e spiegano, che nemmeno Giorgio Guazzaloca, “lo sbolognatore” come lo definì una volta Vittorio Feltri, il sindaco indimenticabile che nel 1999 sconfisse i comunisti, era un uomo propriamente di destra, ma un candidato civico e un gran signore che conquistò i bolognesi proprio acquisendo autonomia da Silvio Berlusconi che pure lo candidava. “Voterò Pd”, ha rivelato ieri persino la figlia di Guazzaloca, Grazia. Eppure pochi chilometri più giù, lontano dai colli e dai grandi centri dell’economia industriale, lontano dal denaro della banca Unipol, lungo via San Vitale, ecco che l’infinita distesa di negozi gestiti dagli immigrati è guardata con fastidio, “pagano l’affitto regolarmente, per carità, però la sentite la puzza?”.

 

Lungo le vie del centro, commercianti e ristoratori si lamentano, “ci sono bande di maghrebini. Ma ci abbiamo fatto il callo ormai”, dice Giovanni Favia, l’ex prodigio dei Cinque stelle emiliani oggi diventato imprenditore con una serie di ristoranti, uno dei quali proprio nella sospesa e contesa zona universitaria. E infatti forse basta grattare questa buccia, questa superficie di bonomia bolognese che sembra ricoprire ogni cosa come una pellicola pubblicitaria, per sentirsi dire alla fine frasi come “mia figlia va a scuola in piazza Aldrovandi. Ed è l’unica italiana in classe. Capisci che c’è un problema?”.

 

Tuttavia quasi nessuno a Bologna dice di votare Lega. I più coraggiosi la prendono alla lontana, e infatti i sondaggi che i partiti stanno compulsando da settimane sono quanto di più strano, confuso e stordente possa esistere, a riprova d’una sorta di scissione della personalità, una forma di schizofrenia cittadina che meriterebbe attenzione e chissà forse anche studio. Perché Bologna è la battaglia decisiva di queste elezioni regionali, chi vince Bologna vince tutto.

 

“Voglio proprio stringervi la mano, perché io prima votavo Pd e ora voto per voi. Sono guarito”. Quando davanti al bancone del bar Pik Pak, in zona di porta San Felice, il signor Giuseppe Lauri, grande e tombolotto, impiegato dell’Enel, si avvicina a Riccardo Molinari ed Edoardo Rixi, ecco che i due colonnelli di Salvini, il piemontese e il ligure che stanno facendo aperitivo con il Campari, per un attimo forse temono di essere contestati. E invece è tutto il contrario. “Prima votavo quelli là”, dice loro il signor Giuseppe. “Negli anni Settanta ero iscritto al Pci, sezione di Collecchio. In famiglia siamo quattro fratelli, due adesso votiamo Lega e altri due sono ancora con il Pd. Per adesso…”. Ed ecco la scissione dell’identità, appunto, che a Bologna si fa famigliare ma anche psicologica.

 

Secondo un recentissimo sondaggio Emg, il presidente della regione e ricandidato, Stefano Bonaccini, è giudicato positivamente dal 67 per cento della popolazione. Piace persino al 58 per cento degli elettori di centrodestra, ed è pure considerato di gran lunga più preparato, più serio e addirittura più onesto della sfidante leghista Lucia Borgonzoni che si ferma al 24 per cento. Poi però arriva la fatidica domanda: chi voterebbe? Ed ecco che solo il 44,5 per cento delle persone dice che voterebbe il candidato di centrosinistra Bonaccini, che pure considerano migliore. Un testa a testa, dunque, tra la sinistra e la Lega, una sfida all’ultimo decimale che ha i tratti della doppia personalità, appunto: la Bologna di sopra e di sotto, la Bologna Jekyll e quella Hyde, la città che vorrebbe ancora corrispondere al suo stereotipo ma che forse invece in questi tempi di spiazzanti contropiedi sfugge anche lei alle gabbie della storia e della tradizione. 

 

Fino a qualche mese fa, percorrendo da cima a fondo il catalogo di tutte le catastrofi pensabili, quella di una vittoria leghista era la meno probabile. Ma adesso? E allora mentre Matteo Salvini, attore consumato del proscenio nazionale, invade Bologna e giganteggia come una nave da crociera sul Canal Grande in questa città che è insieme centro e periferia, provincia e snodo strategico, mentre il gran leghista lancia segnali amichevoli alle cooperative un tempo rosse e persino alla chiesa del vescovo Matteo Maria Zuppi, cioè al cardinale della carità e delle parrocchie invitate ad accogliere i migranti, insomma mentre Salvini si fa convesso e tranquillizza il mondo collaterale alla sinistra, ecco che a Bologna il Pd precipita in una spirale d’incertezza forse mai provata prima d’ora.

 

Al padiglione 19 della Fiera, mentre apre la sua campagna elettorale, Stefano Bonaccini – quasi vestito da tronista di Maria De Filippi: scarpe di vernice sormontate da pantaloni scuri su giacca scura e t-shirt bianca – si aggira nervoso, compulsando gli appunti del discorso che pronuncerà a braccio davanti a un pubblico di sindaci, di candidati civici, in un luogo che sembra scelto apposta per restare lontano dalle liturgie e dai simboli del partito eterno ma anche, forse soprattutto, distante dal governo di Giuseppe Conte che a Bologna gli industriali criticano, seppur a bassa voce, soprattutto per la tassa sulla plastica, mentre anche i commercianti di questa città che ha da poco scoperto il turismo internazionale di massa assieme all’esplosione di attività legate al cibo (di massa) mugugnano per via della lotta al contante, “per il pizzo autorizzato che dobbiamo pagare in commissioni bancarie per colpa del bancomat e della carta di credito”.

 

La preoccupazione è un fenomeno contagioso, si trasmette dall’uno all’altro come il morbillo o la scarlattina. Sembra saperlo bene anche Virginio Merola, il sindaco di Bologna, ovviamente del Pd, che nel suo studio, nel sontuoso Palazzo D’Accursio, con alle spalle la fotografia del grande Giuseppe Dozza, che fu il sindaco comunista della ricostruzione e del boom economico, fuma sigarette cinesi – “sono quelle del presidente Mao” – e fa esercizio di relativismo. Tira un’aria strana, il vento spinge a destra, in effetti, “ma noi abbiamo ancora insediamenti molto forti”, dice Merola. “Alla Bolognina siamo il primo partito nella fascia popolare”. Ma poi il sindaco riconosce l’insidia rappresentata da Salvini, che sta trasformando queste elezioni in un referendum sul governo. “C’è una grande differenza tra noi e il governo nazionale”, dice Merola, scavando un fossato tra sé e il Pd romano che da ieri, fino a domenica, è sbarcato in massa a Bologna per la grande assemblea indetta da Nicola Zingaretti. “Noi qui prima di prendere una decisione coinvolgiamo gli industriali, i sindacati, le associazioni del terzo settore. A Roma non si capisce più chi è che li vuole i provvedimenti”.

 

Ma a far paura alla sinistra, a renderla nervosa e per la prima volta davvero incerta sulla propria forza, è qualcosa di apparentemente impalpabile, quasi immateriale. La Lega a Bologna non esiste fisicamente: non ha nemmeno una sede (ha un indirizzo e un monolocale a Zola Predosa, a tredici chilometri da Bologna) e l’ultimo elenco disponibile degli iscritti, che risale però al 2012, è fermo alla desolante quota di circa cento tesserati, in una città di circa quattrocentomila abitanti. Come dice Manes Bernardini, a lungo uomo forte di Umberto Bossi in Emilia-Romagna, oggi uscito dalla Lega e in polemica con il nuovo corso salviniano: “Il partito a Bologna non esiste proprio più”. E infatti giovedì sera, al palazzetto dello sport di piazza Manfredi Azzarita, Salvini ha faticato a riempire i cinquemila posti a sedere per l’apertura della campagna elettorale, proprio mentre Giancarlo Giorgetti, con gesto scaramantico, a un passo dal palco illuminato dai riflettori, diceva: “Io qui di solito ci vengo per il basket… e di solito qui si perde”.

 

L’altra sera, per riempire il PalaDozza, Salvini è dovuto d’altra parte ricorrere all’aiuto della Lombardia e del Veneto, insomma dei pullman di sostenitori organizzati e calati giù dagli insediamenti storici. Ma non avere militanti non significa non avere voti, proprio come aver riempito piazza Maggiore con dodicimila persone in realtà non rassicura affatto il Pd e il centrosinistra sull’esito delle elezioni. A Bologna il leghismo infatti non ha scale Mercalli codificate, non ha colori, non si presenta con il fazzoletto verde al collo, ma è un umore strisciante che occupa gli stessi spazi della sinistra, mangia nelle stesse osterie, persino alla trattoria Da Vito, nel rione Cirenaica, lì dove Guccini beveva il vino con Lucio Dalla e il più giovane Luca Carboni interpretava la bonomia bolognese invitando ad “andare più piano” (mentre Vasco Rossi, che è di Modena, cantava “vado al massimo”).

 

Insomma la Lega a Bologna è un’inclinazione, una variazione di tono su spartiti conosciuti, un’ipotesi di futuro che non suona più nemmeno tanto come una bestemmia. Non a caso è agli uomini e alle donne di sinistra e cattolici che in realtà Salvini sta chiedendo il voto citando Giovanni Paolo II, il cardinale Biffi e il cardinale Zuppi, persino accarezzando per il verso giusto le cooperative rosse “con le quali abbiamo già preso contatti”, come ha detto al Resto del Carlino, e affidandosi, più che ai modi spicci e alla povertà lessicale della candidata Borgonzoni, alle parole dotte e alate di Davide Rondoni, il poeta, l’intellettuale romagnolo che giovedì ha aperto le celebrazioni elettorali al PalaDozza.

 

Dice per esempio Filippo Pieri, segretario confederale della Cisl emiliana: “Chiunque vinca noi collaboreremo. E certamente non ci schieriamo”. I sindacati, unitariamente, presenteranno il 22 gennaio un documento di proposte concrete da offrire a tutti i candidati. A chi vorrà accoglierle. Chiunque. Dunque anche Salvini. E se l’establishment è tutto a sinistra, come sono a sinistra i grandi borghesi illuminati della città, Marino Golinelli, il filantropo milionario della farmaceutica, Isabella Seragnoli, la proprietaria di Coesia, la multinazionale del packaging che spende cifre vicine ai 20 milioni di euro all’anno in opere di bene, e Fabio Roversi Monaco, il potentissimo ex rettore dell’università detto alternativamente “il Re” o “il Faraone”, è pur vero che il potere economico e finanziario è per sua natura laico, non solo a Bologna ma dovunque nel mondo, quindi flessibile, adattabile al potere politico in tutte le sue forme, anche quelle più aliene.

 

Giovedì notte, nel deserto del quartiere Porto assediato dai centri sociali e blindato dalla polizia, poco dopo il discorso di Salvini ecco che Massimo Casanova, il famoso proprietario del Papeete ed europarlamentare della Lega, faceva esercizio di spavalderia: “Qua vinciamo e Matteo tornerà in spiaggia da premier”. I bolognesi, anche quelli acquisiti ma pienamente accordati alla città, come Francesco Bernardi, scuotono la testa, e non per ragioni ideologiche, ma antropologiche: Bologna non è Forlì, l’Emilia non prende fuoco come la Romagna. Solo che anche Salvini sembra averlo capito, gliel’hanno spiegato, dunque funambolo e camaleonte, stavolta ai bolognesi non sta portando il vino ma l’acqua.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.