Boris Johnson (foto LaPresse)

Strategia contro plebiscito: due modi diversi di fottere l'Europa

Giuliano Ferrara

I parlamenti contano più delle opinioni ma la storia di Boris Johnson ha poco a che fare con quella di Salvini

A pensarci bene Boris Johnson sta davvero cercando di fare la stessa cosa tentata dal senatore Salvini: sospendere il parlamento, virtualmente scioglierlo e poi si vede. Stesso l’obiettivo: fottere l’Europa. Alla radice del tentativo un’altra analogia: difendere il principio democratico (referendum Brexit) contro il parlamento e le sue prerogative liberali. Si notano però anche le differenze. 

 

 

Boris non vuole chiudere l’Inghilterra, il suo progetto più o meno attendibile è una global Britain, cioè fare di quel paese emancipato dalle costrizioni e regole di Bruxelles una piattaforma multilaterale mondiale, imperiale secondo tradizione e sogni della grande potenza marittima, un paradiso fiscale del libero commercio internazionale (niente di più lontano dal gruppo di Visegrad). La sospensione di Westminster è giustificata, secondo criteri per così dire giurisprudenziali, con tanto di discussi precedenti, dalla necessità di trattare e concludere da posizioni di forza con Barnier e la Commissione di Bruxelles il famoso deal o accordo: finché a Bruxelles sanno di poter contare sul rinvio dettato dall’ostilità dei Comuni all’uscita alla cieca, questo è il ragionamento spericolato ma sensato del premier di Londra, il negoziato metterà il Regno unito in una posizione di debolezza (come è avvenuto nel caso del withdrawal agreement di Theresa May). Senza parlamentari che votano a capocchia o per istinto e umori e calcoli sarà più facile, pensa l’ineffabile Boris, concludere qualcosa di sensato. La faccenda è spessa, e nelle intenzioni del conservatore va risolta con un gesto spregiudicato e drammatico alla Churchill, e questo gesto antiparlamentare suscita detestazione, disprezzo e acuta insofferenza in vaste aree dell’opinione politica e costituzionale britannica. 

 

 

Per il senatore Salvini le cose si erano messe in tutt’altro modo. Primo. Lui non parlava a nome di una maggioranza, come Boris: la sua maggioranza era nata in parlamento e non nel voto popolare e lui l’aveva delegittimata e per così dire sciolta presentando una mozione di sfiducia contro il suo stesso governo. Secondo. La democrazia da lui difesa con l’appello ai deputati e senatori (alzate il culo e fatemi votare) e con la richiesta di pieni poteri non era un referendum tuttora inapplicato, in cui avesse vinto con il 52 per cento dei voti, ma una lunga serie di sondaggi e elezioni europee (53 per cento di partecipazione) che valgono un corposo sondaggio e nulla più (come si era visto anche con Renzi). La forza effettiva di Johnson, nella metafora retorica del conflitto tra parlamento e popolo, è il 52 per cento, quella del senatore italiano era il 17 per cento.

 

Ci sono poi altre distinzioni da fare. Quella di Johnson è una personalità complessa, radicata nel gusto nazionale per eccentricità e trasgressività, mentre il senatore Salvini, a partire dall’uso della lingua e della lingua del corpo, è felpato in un senso molto curioso, direi unico, nel panorama dei politici professionali (panorama a cui il senatore appartiene di diritto, non disponendo di una formazione e di un lavoro in proprio estraneo alla politica). Boris è un po’ un clown, sulla scena del teatro più estremo nella modernità europea, mentre il nostro senatore si è mostrato forse un po’ sempliciotto nella pretesa sbrigativa a un’investitura personale di spiaggia. Infatti Johnson vuole una cosa strategica per il suo paese, un globalismo che implica visione e una tecnica istituzionale grossolana ma anche a suo modo raffinata, il senatore Salvini voleva manifestamente soltanto un plebiscito su di sé, perché anche lui credo sospetti che un’Italia globale più che mozzarella e mutande non potrebbe proporre, fuori dall’Europa, ai commerci mondiali. Resta comunque il fatto che darla vinta alle opinioni contro i parlamenti, sopra tutto se con atti di forzatura, è un azzardo.   

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.