John Bercow (foto LaPresse)

La bellezza dei parlamenti che fanno da argine contro la democrazia illiberale

Giuliano Ferrara

L'Italia ma non solo, anche Trump e Johnson provano a esautorare i rappresentanti del popolo. Un agghiacciante aspetto della realtà politica contemporanea

Parlamenti e papere è un saggio da scrivere. C’è gente, papere, che continua a ripetere la tiritera del ribaltone, con Salvini e Meloni. Io nel 1994 ero consigliori del Cav. nero e non eminente membro del governo Berlusconi I che fu mandato a casa, e ho ricordi precisi. Le cose andarono così. Una legge elettorale maggioritaria per il 70 per cento fece sì che all’indomani del voto ogni organo di informazione titolasse: ha vinto Berlusconi, ha la maggioranza alle Camere. Fatto in quattro e quattr’otto il governo dopo consultazioni finte (che a Scalfaro, allora presidente, non devono essere piaciute per niente). Passarono una decina di mesi o poco più e un Cav. imprudente, che voleva prendersi la Lega di Bossi, fu messo in mezzo da Bossi stesso, in rivolta, e da Buttiglione, che cavallerescamente poi difesi quando lo misero sul rogo laico a Bruxelles, e da D’Alema, che aveva ribaltato Occhetto per ribaltare meglio Berlusconi e mangiò famosi crostacei a Gallipoli con il Butt., quel D’Alema che anni dopo cavallerescamente proposi presidente della Repubblica per vedere se si poteva cambicchiare qualcosa. Messo in mezzo vuol dire questo: i deputati e senatori della Lega, eletti con una maggioranza di voti forzitalioti nei collegi, mandarono il Cav. e i loro elettori a quel paese per impedire il takeover, e con altri trucchi e manovre parlamentari il voto fu seppellito. Allora l’Ulivo votò compatto per un governo presieduto dal ministro del Tesoro di Berlusca, il Dini. Scalfaro, per ottenere le solite dimissioni di Berlusconi senza scandalo, gli promise entro sei mesi la tenuta delle elezioni. Niente da fare. Tradimento (si fa per dire), e si andò di Dini in Prodi in Amato e alla fine, candidato Rutelli, fu la vendetta (sette anni di ribaltone). All’epoca i compagni terzisti non si sbracciarono per dare il voto al popolo e a Rousseau (sempre furbi). Questo è un ribaltone, per motivi chiari e circostanziati. 

 

Il voto degli zingarettiani per Conte, se ci fosse, non avrebbe niente a che vedere con quello degli ulivisti per Dini, e nulla impone a Mattarella di concedere il voto subito a chi, Salvini, lo ha chiesto per avere conferiti pieni poteri (una frase che resterà nella farsesca storia di decadimento della Repubblica che amiamo). Infatti Giggino, Conte e gli altri del 32 per cento alle politiche recenti non avevano vinto un turno elettorale maggioritario insieme a Salvini, ma contro (ricordate i cazzotti che si davano, in particolare l’inutile Dibba?). Poi si erano messi insieme con lui che era arrivato terzo (17 per cento) in parlamento, via contratto sociale rousseaiano (che bestemmie!), dopo tre mesi di trattativa che non mi permetterei mai di chiamare mercimonio. In parlamento nacque un governo che entrò in crisi a Ferragosto per i minacciosi e pirleschi capricci di Salvini, e in parlamento si può benissimo, senza ribaltoni, metterne insieme un altro. Non si è obbligati a pensare che un governo alternativo alle provocazioni salviniane, fatto di Pd Leu e Cinque Stellette, sia una grande prospettiva strategica per questo luogo in cui abitiamo, basta pensare che è pienamente legittimo, che non è un ribaltone e che evita il peggio, una delle missioni della politica parlamentare in tutte le democrazie liberali moderne. Punto.

 

Ma Donaldo Trump, quello di Giuseppi, lavora per esautorare il Congresso americano, procede per executive orders e cerca la conferma della Corte Suprema che ha rinnovato per benino a suo gusto; e Bolsonaro, di cui Salvini è una groupie, disse a una parlamentare brasiliana impegnata per la legge sullo stupro che era troppo brutta perché lui la stuprasse, e poi ci ha riprovato con una bella e affascinante signora francese che è la sposa di Macron; e Boris Johnson, che è un avventuriero mica male, cerca di obbligare la rassicurante Elisabetta II a tenere chiuse le porte di Westminster finché lui non abbia fatto i propri comodi con la Brexit, un oltraggio costituzionale secondo John Bercow (in Inghilterra questi oltraggi si pagavano con la decapitazione, da noi bastava un forum di discussione con Zagrebelsky). Insomma, il panorama antiparlamentare, di cui peraltro fino a ieri, ma cambiando ora posizione, almeno un po’, facevano parte le Stelline, è vasto e pericolosamente incendiato da fuochi anche più estesi di quelli delle foreste pluviali sudamericane. Perché le papere liberaldemocratiche non vogliano riconoscere questo agghiacciante aspetto della realtà politica contemporanea, non lo so. Forse è solo un puntiglio, forse sono intontiti dai social, chissà.       

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.