Armando Siri (foto LaPresse)

Siri dimissionato da Conte

Storia di una trattativa in cui Salvini è riuscito a sbagliare ogni cosa

Valerio Valentini

La surreale (non) difesa del sottosegretario. I dubbi leghisti, l’ansia della Bongiorno: “Così cediamo alle procure”. L’incognita Rixi

Roma. Alle quattro del pomeriggio, Laura Castelli compare alla buvette con l’aria sorniona di chi sa di aver vinto, e forse vorrebbe perfino stravincere. Il Cdm che ha sancito la cacciata dal governo di Armando Siri è terminato già da qualche ora, e la viceministro dell’Economia ci tiene a far vedere che, se davvero volesse, il M5s potrebbe affondare ancora di più il colpo: “Non mi pare – dice – che sulla Lombardia abbiamo detto nulla”. Allusione niente affatto velata alle sorti di Attilio Fontana, il presidente leghista della Lombardia finito indagato per la nomina sospetta del suo socio di studio, Luca Marsico. “Per il M5s la legalità è un valore irrinunciabile. Il popolo era con noi, perciò la Lega non poteva sostenere la sua difesa di Siri”, dice Manlio Di Stefano, il sottosegretario grillino agli Esteri. Che poi aggiunge: “Il presunto mito del Salvini tattico infallibile, in cui qualche commentatore ha creduto, oggi decade”.

   

Ed è un pensiero, questo, condiviso perfino da alcuni colonnelli del Carroccio. “Matteo è così, per lui i rapporti personali contano”, dicono. E quelli tra Salvini e Siri durano ormai da anni: da quando, a maggio del 2012, il neo segretario della Lega lombarda va a sostenere l’amico Edoardo Rixi che tenta l’avventura da sindaco a Genova, e incrocia quell’arrembante candidato che promette di fare assumere i disoccupati della città dalle imprese che lavorano alla Gronda: otterrà alla fine lo 0,6 per cento. Lo incontrerà di nuovo due anni dopo a Milano, quando Siri invita a parlare Alvin Rabushka, economista americano e padre putativo della flat tax, al convegno del Partito Italia Nuova – strano mix di spiritualismo esoterico e valori iperliberali – di cui Siri è leader. È l’inizio di un sodalizio umano che resterà inscalfibile. Un po’ perché alla flat tax il capo del Carroccio deve parte del consenso che è andato accumulando, e un po’ perché, come appunto ripetono i leghisti, “per Matteo i rapporti personali contano”.

  

Ma non si capisce se, in queste parole, ci sia più ammirazione o rammarico. Perché, sulla vicenda Siri, Salvini ha sbagliato tutto. Non lo ha fatto dimettere nell’immediato, coi modi e i toni che si confanno all’uopo: una conferenza per annunciare il passo indietro, della serie “sono innocente ma non voglio mettere in imbarazzo il partito”. Questo suggerivano a Salvini, nelle poche occasioni in cui riuscivano a strapparlo alla trance della campagna elettorale, praticamente tutti i ministri leghisti, tranne uno. Il vicepremier ha agito diversamente, regalando tre settimane di campagna elettorale ai grillini. Ai quali alla fine ha dovuto arrendersi, riuscendo così a deludere anche chi, sul fronte opposto, lo esortava alla fermezza: “Se cedi su questo primo attacco, poi ti esponi all’assalto della magistratura”, gli ripeteva, grosso modo con queste parole, Giulia Bongiorno, non a caso colei che, nel Cdm di ieri, ha replicato alla requisitoria di Giuseppe Conte con un’arringa tutta improntata al garantismo, al rischio di creare precedenti.

 

Anche perché il 30 maggio arriverà la sentenza su Edoardo Rixi, su cui pende una richiesta di condanna a 3 anni e 4 mesi per i presunti rimborsi gonfiati di quando era consigliere regionale, tra il 2010 e il 2012. Il 30 maggio: cioè, quattro giorni dopo il voto, quando di certo si innescheranno le trattative proprio per le rivendicazioni leghiste sul dicastero dei Trasporti di cui Rixi è viceministro. “Ci sarebbe poco da discutere: le dimissioni in caso di condanna, che non ci auguriamo, sono previste dal contratto di governo”, dice Mattia Fantinati, sottosegretario grillino alla Pubblica amministrazione. “Noi comunque non drammatizzeremmo”, aggiunge. “Quelli che fanno trapelare ripercussioni sul governo sono, mi pare, i leghisti nostalgici del vecchio centrodestra, che ritornerebbero volentieri alla Lega ‘padana’, stampella nordista di Berlusconi, magari per fare affari a livello locale”. Ed ecco che la Lombardia riappare: sta lì, prefigurazione del prossimo fronte di baruffa, ma solo evocato. Per ora.