Sophia Loren e Giulio Andreotti (foto LaPresse)

Lezioni di cinema e politica

Maurizio Crippa

Andreotti fu l’artefice della rinascita dell’industria italiana del film. Con un controllo morbido e di ferro. I due film-intervista di Tatti Sanguineti, una lezione di metodo ai politici incapaci di oggi

Cominciamo a metà della storia, come nei film d’autore che non erano la sua passione. Quo vadis di Mervin LeRoy è del 1951, uno dei più grandi kolossal della storia del cinema, il film che inaugurò la stagione felice di Hollywood sul Tevere. Ci recitavano Robert Taylor e Deborah Keer, ci lavorarono trentamila comparse, per mesi, e centinaia di cavalli. Giulio Andreotti era sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo spettacolo dal 1947, ci rimarrà fino al 1954: da Cinecittà in macerie ridotta a un campo per gli sfollati – e che l’ammiraglio Ellery Stone voleva così restasse perché “il cosiddetto cinema

“Al cambio della guardia dei corazzieri si può rinunciare, ma io con Quo vadis faccio lavorare trentamila romani per sei mesi”

italiano, essendo stato inventato dai fascisti, deve essere soppresso” – alla copertina di Time (1952) che celebrava “l’invasione del cinema italiano”. Molti cavalli, molto onore. Non era facile trovarne così tanti, per una grande produzione americana. Allora, mentre l’Italia si rimetteva in marcia, gli unici ad avere tanti cavalli a disposizione erano i militari. Cinecittà se li faceva prestare. Ma così tanti? Un generale se ne lamentò: mica possiamo darvi tutti questi cavalli per sei mesi. Il felpato Giulio salì al Quirinale, c’era Einaudi: al cambio della guardia dei corazzieri si può rinunciare, sussurrò, ma io con Quo vadis faccio lavorare trentamila romani per sei mesi. I cavalli arrivarono, Cinecittà decollò. Nel ’45, mentre Rossellini si vendeva la casa per comprare la pellicola per finire Roma città aperta, in Italia si girarono 27 film. Ma ne arrivarono, con i soldati di Roosevelt, ottomila americani. E non c’era altro da vedere. Nel 1953 i film italiani furono 170, nel frattempo i comunisti (almeno in via ufficiale) e les auteurs del Neorealismo insistevano a denunciare la grande svendita dell’arte nazionale ai “film in scatola” amerikani.

 

“Mi ricordo che da bambino vidi tre volte Il dottor Jekyll e Mr. Hyde. Mi colpiva come la stessa persona potesse avere un doppio volto”. Quando finì il lavoro nello spettacolo, per dedicarsi al resto della sua carriera politica, era già diventato, per il mondo della politica acculturata e per i cinephile, il futuro Belzebù era già diventato il Mr. Hyde di Cinecittà. L’uomo che aveva in mano le forbici della censura e i cordoni della borsa, l’uomo che aveva detto la famosa battuta su Umberto D. e sui “panni sporchi che si lavano in casa”. Strano destino del più celebre battutista della politica italiana: essersi impiccato da solo a due battute infelici. Ma nel frattempo, cinephile a parte e con il plauso di Di Vittorio, aveva ricostruito la macchina produttiva a tempo di record, fatto riaprire le sale, si era circondato di solidi professionisti dell’industria (dell’epoca Minculpop) come Nicola De Pirro, aveva salvato l’Istituto Luce e aveva varato la legge sul cinema, nel 1949. La prima legge organica sullo spettacolo della Repubblica. Che non era solo la legge sulla “censura preventiva” dei film, era anche la legge che stabiliva le quote per il cinema italiano e un sistema di finanziamenti senza i quali il cinema italiano sarebbe morto di inedia. Ma per avere i soldi ci volevano gli americani, che venissero a girare sul Tevere i loro filmoni. Ci voleva Quo vadis.

 

Bisognerebbe spiegarglielo, agli zucconi di oggi che vorrebbero le quote italiane per le canzonette alla radio, le quote italiane per le serie in tv e le giornate di programmazione obbligatoria nelle sale per i film italiani, quelli finanziati con i soldi pubblici e che nemmeno le mamme delle comparse hanno voglia di andare a vedere. Spiegargli come si fa. Perché che gli zucconi di oggi vogliono il protezionismo in deficit, Andreotti invece lo fece aprendo il mercato e agganciando i film al volano della ripresa e dei biglietti dei film americani. E pensando all’intero sistema paese e non alla sua decrescita conservativa (“finanziare il cinema per avere i soldi per fare le case popolari).

 

Giulio Andreotti e il cinema. Storia di una passione personale superiore a quella per le corse dei cavalli. Storia di una conoscenza di prima mano di film e registi, produttori e star da autentico cinefilo, ma con il gusto popolare per un’arte popolare.

Giulio Andreotti e il cinema. Storia di come l’Italia diventò grande anche per merito di questo “compagnuccio della parrocchietta” (come lo macchiettizzò Alberto Sordi in un film, e lui non la prese per niente bene) che badava alla pubblica morale e e parimenti ai fatturati, e a far crescere un paese. Con anche un po’ di sovranismo ben temperato, ma lui avrebbe preferito amor di patria.

Giulio Andreotti e il cinema è una storia che non conosceremmo così bene, e di certo non con questo gusto di sublime andreottismo per l’aneddoto e il dettaglio, se non fosse Tatti Sanguineti. E per il suo magnifico lavoro, durato anni e una minuzia di studi e di dettagli, che sono diventati un film-intervista diviso in due film: Giulio Andreotti - il cinema visto da vicino e Giulio Andreotti - La politica del cinema. Un film quasi invisibile, o ancora per poco.

 

La storia del film su Andreotti di Tatti Sanguineti, critico e storico o per meglio dire filologo del cinema, una storia nella storia, e anche di un certo mal modo Italia politica e comunicativa, e vale la pena raccontarla. Tra il 2003 e il 2005 Giulio Andreotti rilasciò ben ventuno interviste a Sanguineti, quasi cinquanta ore di girato, parlando solo di cinema. Un materiale documentale enorme, frutto di una preparazione meticolosa e di un taglia e cuci di quasi cinque anni con Pier Luigi Raffaelli e il montaggio di Germano Maccioni. Lo inchioda sul divano, gli mostra spezzoni di film, di cinegiornali Luce, gli mette sotto il naso circolari ministeriali, appunti riservati, resoconti di censura, articoli di giornale. Gli lascia commentare a contrappunto le epoche e le pellicole, compreso il cinema dei decenni successivi, sul quale Andreotti continuava ad aleggiare, eternamente presente, come un fantasma papalino (Sanguineti gli fa commentare, a proposito dei rischi censori, la battuta di Joan Collins nella Congiuntura di Ettore Scola: “Non sono mai stata baciata da uno che poteva diventare Papa”).

 

Giulio Andreotti e il cinema. Storia di come l’Italia diventò grande anche per merito di questo “compagnuccio della parrocchietta”

Un vero interrogatorio – compreso qualche “non ricordo” a proposito di episodi su cui il Divo riteneva di dover continuare a mantenere il riserbo – ma più amabile, e interessato alla verità della storia che ai dettagli e ai baci rubati, di quelli che nel frattempo si conducevano a Palermo. Perché succede questo. Erano gli anni del processo e del massimo isolamento pubblico di Andreotti, divenuto l’Intoccabile, l’Inguardabile. Il lavoro va a rilento, le possibilità di farlo uscire in sala, e in tivù meno che mai, si fanno remote. L’Istituto Luce-Cinecittà, che aveva cofinanziato l’impresa, non lo “spinge”, diciamo. Il film non vedrà mai veramente la luce. Un’apparizione nel 2014, a Venezia, una al festival del Cinema ritrovato di Bologna l’anno dopo. Poi il nulla. Sanguineti ci fa una malattia, o una ragione di vita. Ci perde i soldi, racconta, persino un pezzo di salute. Ma buio in sala. Adesso è arrivato il 2019, centenario della nascita del Divo Giulio. Anno di quasi celebrazioni, tra un libro di Massimo Franco e qualche approfondimento, se il paese avesse memoria. Il Luce ha ristampato i due dvd, cercateli nelle librerie. A inizio gennaio Sky Arte ha annunciato l’imminente messa in onda dei due film, teoricamente ad aprile. Adesso è marzo, ma ancora non è nei palinsesti. Una commedia dell’assurdo, o una patetica mancanza di decisione e attenzione (dalla Rai, racconta Sanguineti, non è mai giunto alcun reale interessamento). Però tenete le antenne dritte.

 

Anche perché, a vederle oggi, le quasi quattro ore di interviste di Sanguineti avrebbero molto da insegnare, specialmente alla classe politica che sta al governo e che ambisce a controllare, con rudezza non esattamente andreottiana e con capacità meno

Le critiche di metodo a Umberto D., una lezione a tutti quelli che oggi pensano che parlar male dell’Italia significhi aiutarla

che meno, il mondo delle immagini e delle informazioni. Insomma questi ceffi che vogliono chiudere i giornali, censurare, decidere perfino le fiction che vedremo in tv e i film stranieri da contingentare. Col forcone, senza la capacità di mettersi d’accordo, sottovoce, con l’avversario pubblico. Basterebbero i racconti di come si “preveniva” l’intervento della censura. Andreotti è stato maestro di forbici e ricamo, cesure e cuciture. Morbidezza. Smontare e analizzare il meccanismo del metodo Andreotti di controllo della macchina del cinema (e dell’informazione: è lui che re-inventa i Cinegiornali Luce, e a quel tempo la tv non era ancora nata e le immagini viste negli intervalli degli spettacoli erano le uniche, ed erano perfette, inzuccherate cronache di regime: e lui è il più presente di sempre, in quelle immagini) è una gran lezione anche per i comunicatori di oggi, alle prese col populismo e le derive del presenzialismo sui social.

 

Ma c’è il divertimento, poi. Andreotti che spiega come e perché, nell’Italia dei mille campanili ma soprattutto delle sale parrocchiali che negli anni Cinquanta sono un terzo del totale, non si potesse fare altro che vietare o tagliuzzare misurando al centimetro le gambe della Mangano. Del resto persino il trionfale Cielo sulla palude, l’agiografia di santa Maria Goretti, costò ad Andreotti che pure fu regista dell’intera operazione una lavata di capo da Pio XII in persona: il Papa era rimasto turbato da alcune immagini, a suo avviso estremamente crude: si vedevano i polpacci della ragazzina.

 

Ventuno ore di interviste, diventati due dvd dell’Istituto Luce e due film in attesa di essere trasmessi (presto) da Sky Arte

Ma è lo stesso ineffabile Andreotti che riuscì a portare Silvana Pampanini a Sora, per esibirla in campagna elettorale come una bellissima e carnale Madonna pellegrina. Ed è lo stesso Andreotti che magicamente fa trasformare in una commedia il nome di De Gasperi in quello più neutro politicamente di Bartali, e un innocente “compagni” in un “amici”. E invece altre battute gli toccò digerirle, come il “pesce democristiano” di Totò rivolto a un pesce che gli impediva di vedere le nudità di Isa Barzizza. Fatiche del taglia e cuci quotidiano, mentre sull’altro fronte si giocavano le battaglie politiche più di importanti. Quelle con i neorealisti, che ce l’avevano con lui (tranne Rossellini ovviamente, che era “uno dei nostri”, ma aveva questa “tendenza a innamorarsi pro tempore ad ogni film”, e come si faceva a spiegarglielo in Vaticano?). Eppure Anni difficili di Luigi Zampa, certo non un film governativo, fu lui in persona a salvarlo dalla censura, e a farlo premiare a Venezia nel 1948.

 

Frivolo come un seminarista impacciato, non si perdeva un appuntamento, un divo, una première. Ci fu la volta che lo scià di Persia a Venezia fece sapere di desiderare una ragazza di compagnia e lui, senza fare un plissé, rispose che di queste cose si occupava la prefettura. Prefettura nella quale, maldestro, alla Mostra del ’47 lascio uno strappo epocale nel tappeto di un prezioso bigliardo. Nel frattempo, anche quando il suo talento era passato definitivamente a maggiori incarichi, il cinema italiano continuò ad andare bene. E lui sempre al centro del retroscena: L’amicizia con Fellini e quella con Sordi (cui però non perdona la comparsata estortagli nel Tassinaro, “un film mediocre”) e l’antipatia naturale di Visconti (“qui a Roma di gran principi ne abbiamo visti anche noi, ma quando arrivava lui e sembrava fosse arrivato il padreterno”) e la simpatia riconosciutagli, dopo tanti anni, da Dino Risi.

 

Restava sempre Mr. Hyde, però. Incalzato da Sanguineti, ancora molti anni dopo i fatti tiene il punto. Ma soprattutto dà un’altra lezione ai politici e agli intellettuali di oggi, che ritengono un dovere dipingere l’Italia come il paese peggiore del mondo. Sempre di Umberto D. si parla: “Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria”, disse. E lo ripete tanti anni dopo a Tatti Sanguineti, con la stessa morbida intransigenza. Casomai qualcuno non avesse ancora capito.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"