Danilo Toninelli (foto LaPresse)

O la Tav o la spacca

Salvatore Merlo

Vertice a Chigi. Conte fa scioglilingua, Salvini si mangia le unghie, Di Maio teme Grillo. Toninelli? Va in palestra

Roma. Matteo Salvini si mangia le unghie perché sulla Tav i 5 stelle rischiano di sfasciarsi consegnandolo a Berlusconi. Luigi Di Maio ha più occhiaie del solito perché Grillo, che già lo chiama affettuosamente “merdina”, non si sa che potrebbe fare. Giuseppe Conte ha un diavolo per capello, malgrado la lacca. E in tutto questo groviglio, nel giorno in cui gli viene calendarizzata pure una mozione di sfiducia, ecco che l’uomo della Tav, il ministro al centro di tutto, la mattina ha il telefono staccato. Dov’è Danilo? Dov’è Toninelli? E’ in palestra. A curare gli addominali di cui va fierissimo. “La palestra è la mia cura”.

 

 

Nulla può turbare la sua cosmica concentrazione. Niente può incrinare le sue sane abitudini. Cascasse il mondo o il governo, Danilo Toninelli si pompa gli addominali a piazza Fiume (“Vuoi sentirli?”, chiese un giorno ad Annagrazia Calabria, collega deputata di Forza Italia). Eppure tutt’intorno al ministro six pack, e alle sue camicie aderenti tipo muta da sub, è un assordarsi di richiami, imbonimenti, facce tese. Alla buvette di Montecitorio il capogruppo salviniano, Riccardo Molinari, raduna lo stato maggiore piemontese della Lega. Sembra gli sia morto il gatto. A tutti. “Che la Tav si faccia non è in discussione”, mormora, con un volto di cemento. Poco più in là però c’è Giovanni Currò, deputato milanese del M5s, uno ascoltato, uno di quei grillini che sanno parlare e fare di conto. “La Tav non si fa”, dice senza tentennamenti. “Piuttosto ce ne torniamo tutti a casa. Mi pare chiaro”.

 

Ed ecco la matassa, l’impasse, apparentemente insolvibile. Martedì pomeriggio ci si sono applicati tutti, a Palazzo Chigi. Come ne usciamo? Il presidente Conte, di fronte alle telecamere, ha dato prova delle sue proverbiali capacità retoriche. Quasi uno scioglilingua. Questo: “Sulla Tav siamo entrati nella dirittura d’arrivo, al percorso finale più squisitamente politico”. Poi, forse assalito dal dubbio di non essere stato sufficientemente contorto, il presidente del Consiglio ha pure aggiunto, con fluida effusione di parole: “Al percorso di razionalità tecnica si aggiunge un percorso di razionalità politica, senza preconcetti ideologici”. Tutto chiaro, no?

 

Palazzo Chigi è un fortino di coscritti assediati senz’acqua. A un certo punto qualcuno propone all’incirca l’uovo di Colombo: bisogna trovare il modo di fare la Tav, senza però far capire che la si sta facendo. Oppure: bisogna perdere tempo per guadagnare tempo, approvare i bandi di gara ma rinviare il resto a dopo le europee. Praticamente la soluzione prospettata dal governo è: ci vorrebbe il mago Silvan. Un gioco di prestigio. “A me gli occhi, please”.

 

L’essenza, la radice quadrata del tormento di ciascuno, sta d’altra parte nella consapevolezza dell’impossibile. La Tav o la si fa, o non la si fa. Ma farla senza farla, il “bicchiere mezzo pieno” – di cui parlava martedì Conte guardando dritto nelle occhiaie di Di Maio – è una di quelle stramberie che ricordano quel tale che aveva inventato un’ora che dura mezz’ora. Eppure se ne parla, parecchio. Chiamare Tav una cosa che non è la Tav? Oppure fare la Tav senza chiamarla Tav? Oppure rinviare, rinviare, rinviare. Ma fino a quando? Ci sono scadenze, contratti, vincoli, penali da pagare. E la maggioranza è una pentola a pressione. Il capogruppo del M5s, Francesco D’Uva, gira in tondo, fa il periplo della fontana al centro del cortile della Camera. “Ma come vuoi che la spieghiamo ’sta cosa ai nostri attivisti?”. E’ sconsolato, D’Uva. Sul serio. Allarga le braccia. “Fossi tu che cosa faresti?”. E questo mentre passa Laura Castelli, grillina piemontese, sottosegretario all’Economia. Tacco, caviglia scoperta, tatuaggio sul piede destro: è una frase, una riga in corsivo. Chissà che c’è scritto. “C’è scritto No Tav”, scherzano i leghisti. Per non piangere. “Venerdì si decide”, taglia corto Conte, appena uscito da una stanza in cui ha lasciato Salvini, Di Maio e gli addominali di Toninelli. A lui è stato formalmente vietato di parlare. Anche se è ancora ministro dei Trasporti. Per ora.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.