Paolo Mieli (foto LaPresse)

L'editoriale sul (neo) fascismo che Paolo Mieli scriverà il 29 ottobre 2028

Maurizio Crippa

Breve appunto statistico sui ravvedimenti fatti sempre tardi

Il 29 ottobre 2028, tra dieci anni esatti, Paolo Mieli scriverà sulla prima pagina del Corriere della Sera l’editoriale di cui possiamo fornirvi già oggi una puntuale anticipazione: “Le responsabilità sono enormi e sono a) di non aver capito per tempo b) di aver pensato che alcuni fenomeni si potessero assecondare perché tanto poi…”. Spiegherà, lo storico-editorialista, nonché direttore storico del Corriere, che dieci anni prima aveva compiuto (lui come altri, non se ne fa un caso ad personam) “grosso modo lo stesso errore che fecero le classi dirigenti nel 1922-1925. Pensavamo ma sì, lasciamo che la società civile si esprima, e poi ci penseremo noi che siamo forti, potenti, e con le idee chiare a ricondurre questi movimenti alla ragione. Neanche per sogno”.

 

Non siamo preveggenti. Abbiamo solo il gusto per le ricorrenze statistiche. Ieri, inteso 29 ottobre 2018, Mieli ha scritto un editoriale di grandi argomenti in cui prende l’abbrivio dalla reazione di Moscovici dopo la “guasconata” (tu chiamale, se vuoi, guasconate) di Ciocca a Strasburgo: “Da qui al fascismo il passo è breve”. Dissente Mieli: “Sappiamo per esperienza che l’evocazione del fascismo è fin dalla seconda metà degli anni Quaranta un rafforzativo quasi obbligatorio della polemica da sinistra (ma non solo) contro i detentori di ogni genere di potere”. E si dedica a smontare gli eccessi di chi evoca il fascismo in rapporto a quanto accadeva ieri e accade oggi, segnatamente in Italia. Spiega che “il termine ‘fascista’ è venuto a perdere ogni rapporto con la realtà degli anni Venti e Trenta in cui è diventato d’uso comune nell’intera Europa”. E se non lo sa l’ottimo storico Mieli, chi deve saperlo? Anche sul vezzo di quanti hanno abusato troppo spesso della parola, non ha torto. In Italia, dice, “ben cinque presidenti” si sono trovati lambiti dall’accusa di favorire derive fasciste. Ci fu Scelba, ci furono perfino il “fanfascismo” e il Craxi forattiniamo con gli stivaloni. Facile controbattere che, di questo passo, in Italia ci sarebbe stato uno slittamento continuo verso derive autoritarie. “Possibile? Ovvio che no”, dice Mieli. Ma allora? “La verità è che il fascismo negli ultimi settant’anni non è più stato all’orizzonte del paesi occidentali e a evocarlo costantemente si rischia ancora di fare lo stesso errore compiuto nel 1924 da Gaetano Salvemini”. Lui temeva il colpo di stato della monarchia, e non capì bene la natura del “mussolinismo”. Lo sbadato. Invece, secondo Mieli, ci sono “specificità dei movimenti nuovi che vanno individuate in ogni epoca senza indulgere alle evocazioni facilone”.

 

Però forse, nell’Italia e nell’Europa di oggi, a differenza di quanto avvenuto nei lunghi decenni trascorsi sotto la protezione della Guerra fredda e dell’Europa vieppiù unita, qualche “specificità” la si può cogliere, e anche darle un nome, per quanto usando le virgolette. Non si accorge, Mieli, di certi modi del linguaggio, oltre che di certe idee, che stanno tornando d’uso comune? I me ne frego detti in Italia e all’Europa, i “noi abbiamo il popolo”, i giornali che devono chiudere, gli sgomberi con le ruspe e quelli nemmeno coi guanti (CasaPound), le mense negate? I fili alle frontiere, con un filo di razzismo? Fenomeni che disegnano uno scenario diverso da quelli del passato. E il crescente antisemitismo? Non sono “specificità” da cogliere?

 

Ci fidiamo, dell’erudizione di Mieli. Ma vorremmo anche notare, per statistica, che l’ex direttore del Corriere, con la sua sicurezza di vedere sempre lontano (è uno storico, no?) ha il vezzo di trovarsi poi spesso a fare ammenda ex post. Il Mieli che nel 1992 si augurava che Craxi si presentasse a giudizio “come un cittadino qualsiasi e sia lui stesso a chiedere che sia concessa dal Parlamento l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti”, è lo stesso che nel 1998 ammise: “Ci ho creduto e l’ho sostenuta. Ma adesso capisco che Mani pulite non è il nuovo, è la vecchia storia dei buoni contro i cattivi”. Le parole che in apertura gli abbiamo posticipato al 2028 le ha dette invece qualche mese fa, facendo mea culpa, stavolta, per aver sottovalutato, per dieci anni esatti, l’avanzata del populismo. Per il bene di noi tutti, ci auguriamo che non faccia lo stesso errore di Salvemini. Ma soprattutto, speriamo non debba ravvedersi nel 2028 per fare sottovalutato un po’.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"