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L'incapacità di distinguere la fuffa dalla realtà spiega la fine dell'opinione pubblica

Claudio Cerasa

L'elettorato italiano non è in grado di avere una percezione dei problemi del paese basata su dati reali. Una sorta di suicidio collettivo

Se l’Italia fosse un paese dotato di un’opinione pubblica con la testa sulle spalle, l’incredibile sondaggio pubblicato due giorni fa sulla prima pagina del Financial Times, relativo all’incapacità del nostro elettorato di avere una percezione dei problemi del paese basata su dati reali e non su dati farlocchi, avrebbe dovuto costringere i principali soggetti dell’informazione italiana a guardarsi allo specchio, ad accendere il computer e a rivolgersi ai propri lettori o ai propri telespettatori con un messaggio composto da tre semplici parole: vi chiediamo scusa. Il sondaggio in questione è quello con cui l’Ipsos ha fotografato un dramma che riguarda una peculiarità del nostro paese, che coincide con un problema che ha avuto una sua centralità nell’ultima campagna elettorale.

 

L’Italia, tra i grandi del mondo, è il paese che più distorce i fatti e dall’immigrazione alla disoccupazione passando per l’economia non c’è un solo ambito della nostra vita in cui vi sia una distanza tra la percezione e la realtà minore rispetto a quella delle altre grandi potenze del pianeta. Rispetto a questi dati, ci si potrebbe interrogare su cosa rischi un paese i cui eletti sono stati scelti sulla base di una programma elettorale tarato più sulle priorità farlocche che su quelle reali – di questi tempi, meglio non avere un mutuo a tasso variabile. Ma così come in economia non si può capire la ragione per cui un prodotto ha un determinato prezzo senza studiare le dinamiche della domanda e dell’offerta, allo stesso modo in politica non si può capire l’origine di un’offerta senza studiare il modo in cui è maturata una domanda. E se in Italia esiste una maggioranza di elettori che ha una visione distorta dei problemi e delle priorità di un paese, la responsabilità non è solo della classe dirigente politica ma è anche, se non prima di tutto, della classe dirigente giornalistica. La stessa che da anni ha rinunciato a combattere una battaglia cruciale per la vita democratica di un paese: spiegare con pazienza ai propri lettori e ai propri telespettatori la differenza tra la fuffa e la realtà. Per spiegare questa differenza, sarebbe stato necessario capire per tempo che cavalcare lo tsunami anti casta avrebbe contribuito solo ad alimentare l’anti parlamentarismo, e non a rafforzare l’identità di un paese. Sarebbe stato necessario capire per tempo che trasformare la battaglia contro i costi della politica nella battaglia centrale di un paese avrebbe contribuito solo ad alimentare l’idea farlocca che all’Italia per risolvere i suoi guai serve in fondo qualche auto blu in meno e non un po’ di efficienza in più. Sarebbe stato necessario capire per tempo che trasformare ogni problema risolvibile in un allarme non risolvibile avrebbe solo contribuito ad alimentare l’industria politica dominata dai professionisti della paura. Sarebbe stato infine necessario capire per tempo che educare un paese a considerare anti democratico ogni politico intenzionato a prendere decisioni impopolari avrebbe contribuito, come nella favola “Al lupo al lupo”, a far perdere di vista i veri valori non negoziabili di una democrazia e di uno stato di diritto. Coltivare una domanda di rancore, si sa, produce un’offerta di rancore e non ci vuole molto a capire che un mercato politico la cui offerta è tarata su una domanda che riflette false priorità è destinato non a risolvere ma a peggiorare i problemi di un paese.

 

Da mesi, i grandi giornali e i grandi programmi televisivi dedicano molta attenzione al fenomeno delle fake news, dando spesso l’intenzione di voler trasformare solo la rete nel principale generatore di notizie farlocche. Ma in un paese come l’Italia in cui tv e giornali costituiscono la principale fonte di informazione per il 65,3 per cento dei cittadini (Agcom 2018) per capire chi ha educato gli elettori a considerare prioritaria l’agenda della fuffa potrebbe non essere sufficiente denunciare la propaganda di un troll russo. La verità è che l’opinione pubblica italiana ha scelto di suicidarsi nel momento in cui ha deciso di non sfidare l’agenda della fuffa. E prima o poi qualcuno dovrà avere il coraggio di ammettere che in un grande paese i mostri di solito nascono quando chi dovrebbe denunciarli decide di fermarsi un attimo lì, a schiacciare un pisolino con i compagni dell’anti casta.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.