Per M5s il Jefta va bene, il Ceta no. Beghin ci spiega perché
Il rischio della concorrenza sleale, gli ogm e la minaccia delle multinazionali. Parla l’europarlamentare grillina
Roma. Guai a parlare d’incoerenza. Tiziana Beghin è la responsabile del commercio internazionale per il M5s al Parlamento europeo. E non ci sta a subire le critiche di chi riscontra nell’atteggiamento dei grillini – entusiasti per l’accordo tra Ue e Giappone, ma risolutamente ostili a quello col Canada – una sorta di strabismo politico. “La rimozione dei dazi doganali sui prodotti esportati dall’Italia – afferma – è qualcosa da vedere positivamente a prescindere dal trattato in questione”. Bene, e allora? “E allora c’è da dire che un trattato deve essere valutato nel suo complesso: e questo porta a delle opinioni divergenti tra il cosiddetto Jefta e il Ceta. Specie in campo agricolo, dove l’impatto dell’accordo col Canada è molto superiore a quello dell’accordo con il Giappone, che di fatto esporta quantità ridottissime di cibo in Europa e soprattutto in Italia. Non solo. Perché i rapporti col Giappone fanno sì che in Europa arrivino prodotti diversi da quelli tipici del nostro continente, per cui ci guadagniamo in varietà senza che i nostri agricoltori possano sentirsi in alcun modo minacciati, visto che il riso non rientra nell’accordo e dunque non c’è alcuna forma di competizione diretta. Il Canada, invece, ha produzioni molto simili alle nostre: perciò l’accordo innescherebbe una sorta di concorrenza diretta, in alcuni casi sleale, con allevatori e agricoltori italiani. Basta pensare, ad esempio, alle enormi quantità di grano che arriverebbero in Europa”.
Eppure noi italiani importiamo già quantità enormi di frumento dal Canada. “Ed è un problema”, replica secca la Beghin, secondo la quale “proprio per questa massiccia presenza di prodotti canadesi la ratifica del Ceta finirebbe per sfavorire ancor più i produttori nostrani, anche perché oltreoceano il made in Italy non viene affatto tutelato”. In verità, è proprio il Ceta che introduce la tutela, oggi inesistente, di 41 prodotti italiani tipici (Ig), che rappresentano oltre il 90 per cento del nostro export verso il nord America. E però, a giudizio dell’europarlamentare del M5s, c’è un’altra grande differenza tra il Ceta e il Jefta: ed ha a che fare con gli ogm. “Il Giappone, è vero, ne ha approvato un gran numero per il consumo interno, ma non ne esporta verso l’Europa. In Canada, invece, una vasta porzione delle colture e dell’allevamento è geneticamente modificata o trattata con ormoni”. Notorio. Così com’è innegabile, però, che il Ceta impone comunque ad Ottawa di rispettare gli stringenti standard Europei per i prodotti che vuole esportare. “Vero”, riconosce la Beghin. “Tuttavia – prosegue – abbiamo registrato vari tentativi da parte del governo canadese di richiedere l’alleggerimento della normativa europea in materia”.
Risultati, finora, sempre vani. “Ma in prospettiva le contraddizioni potrebbero emergere, anche perché il Ceta, su questi aspetti, rimanda a degli allegati ancora in bianco. E insomma, dovendo noi rispettare le quote sugli scambi commerciali, sul lungo periodo corriamo il rischio che, in un modo o nell’altro, finiremo comunque per importare prodotti geneticamente contaminati”. Dunque, in sostanza, un timore preventivo? “Certo, anche perché le pressioni di certi colossi nordamericani su un’Europa così debole e disgregata, qual è quella attuale, preludono ad un abbassamento degli standard comunitari”. Ma al fondo, la vera differenza tra i due accordi, ciò che insomma rende indigesto il Ceta al M5s, sta in quel “pericoloso meccanismo di risoluzione delle controversie investitore-stato che prende il nome di Isds”. Il motivo? “La sovranità statuale non può essere mai messa a confronto con quella delle grandi aziende: è intollerabile. L’organizzazione mondiale del commercio, il Wto, prevede delle istanze di diritto internazionale aperto alle controversie tra stati. Il Ceta invece dà facoltà ad un investitore straniero di citare in giudizio un governo laddove ritenga che alcune normative approvate dai Parlamenti ledano i propri interessi. Ci potremmo ritrovare di fronte al paradosso per cui uno stato istituisce il salario minimo e una multinazionale, ritenendo che ciò danneggi i propri piani d’investimento e di profitto in quel paese, ricorre all’Isds”. Insomma, “mentre il piccolo imprenditore continuerà a poter contare solo sulle sue forze, i grandi colossi potrebbero conquistare, grazie al Ceta, un’arma di ricatto sui governi europei”. Ma forse che certi colossi hanno davvero bisogno del Ceta, per potere avere una forza contrattuale con gli stati? “No, certo. Il mercato è la legge del più forte sul piccolo, si sa. Ma non è pensabile di istituzionalizzare di questo processo tale per cui a uno stato vengono legate le mani rispetto al suo futuro. Le aziende devono pensare al loro profitto, e ci mancherebbe. Ma gli stati hanno il dovere, e anche il diritto, di tutelare sempre gli interessi dei propri cittadini”.
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