Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Breve storia triste dell'impeachment all'italiana

Maurizio Stefanini

Mentre il M5s valuta la messa in stato di accusa di Mattarella (che è tecnicamente irrealizzabile, almeno per ora), ecco una carrellata dei precedenti italiani, da Segni a Napolitano

Luigi Di Maio e Giorgia Meloni lo chiedono, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi lo escludono, Matteo Salvini dice che ci deve pensare. Ma in realtà in questo momento l'impeachment all'italiana nei confronti del presidente Sergio Mattarella sarebbe tecnicamente impossibile. Secondo l'articolo 90 della Costituzione, “il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri”. La decisione spetta poi alla Corte Costituzionale, e l'articolo 135 spiega che “nei giudizi d'accusa contro il Presidente della Repubblica intervengono, oltre ai giudici ordinari della Corte” – che sono quindici – anche “sedici membri tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l'eleggibilità a senatore, che il Parlamento compila ogni nove anni mediante elezione con le stesse modalità stabilite per la nomina dei giudici ordinari”. Solo che per far votare il Parlamento ci vorrebbe prima l'istruttoria disposta dal comitato parlamentare per i procedimenti di accusa. Un comitato che però non può essere costituito senza che ci sia un governo nel pieno delle sue funzioni, in grado di stabilire chi è maggioranza e chi è opposizione. E la lista dei 45 cittadini è scaduta da tempo.

 

Questa procedura fu applicata una sola volta, ma non contro un presidente. In origine gli articoli 90 e 96 della Costituzione prevedevano la messa in stato di accusa rispettivamente per il presidente della Repubblica e per il presidente del Consiglio e i ministri per reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni. L'impeachment scattò nel 1977 per il processo sullo scandalo Lockheed contro gli ex ministri della Difesa Luigi Gui, che fu assolto, e Mario Tanassi, che fu invece condannato. Ma nel 1987 un referendum abolì quella Commissione inquirente e, con la riforma costituzionale del 1989, l'equivalente nostrano dell'impeachment restò in vigore per il solo capo dello stato.

 

Un vero impeachment presidenziale in Italia non c'è dunque mai stato. Eppure ben tre presidenti della Repubblica hanno concluso anticipatamente il loro mandato dietro minacce di ricorrere alla messa in stato d'accusa. Primo fra tutti fu Antonio Segni, che il 7 agosto 1964 ebbe un incontro con Giuseppe Saragat e con il presidente del Consiglio Aldo Moro, nel corso del quale il leader socialdemocratico accusò Segni di aver progettato un colpo di stato assieme al generale De Lorenzo, e minacciò di attivare l'articolo 90. Segni fu colto all'istante da un ictus che lo obbligò alle dimissioni.

 

Dopo i sette anni di Saragat fu la volta di Giovanni Leone che, sul finire del suo mandato, fu coinvolto dallo scandalo Lockheed. Accusato di essere il destinatario di mazzette, Leone comparve sulle copertine dei giornali con le corna in testa, mentre Camilla Cederna lo attaccava in un pamphlet violentissimo. Così Dc e Pci lo costrinsero alle dimissioni con sei mesi di anticipo.


Il terzo caso fu quello di Francesco Cossiga, il “picconatore”. Il 6 dicembre 1991 il Pci assieme ad altre forze d'opposizione presentò in Parlamento una richiesta di messa in stato d'accusa con ben 29 capi di imputazione. Il Comitato parlamentare si oppose e la procura di Roma, il 3 febbraio del 1992, dispose l'archiviazione. Ad ogni modo, il 28 aprile Cossiga annunciò le sue dimissioni, con due mesi di anticipo rispetto alla fine del suo mandato.

 

Infine, in un paio di casi più recenti, la minaccia di ricorrere alla messa in stato di accusa non ha portato nemmeno alle dimissioni del capo dello stato. E' successo con Oscar Luigi Scalfaro, dopo che aveva obbligato Berlusconi a spostare Cesare Previti dal ministero della Giustizia a quello della Difesa avvallando il “ribaltone” di Lamberto Dini. Forza Italia alzò i toni, Scalfaro rispose in tv con la celebre frase “Io non ci sto”. Ma il presidente della Repubblica concluse comunque il suo mandato. La stessa cosa si è ripetuta nel 2010 con Giorgio Napolitano, quando il deputato del Pdl Maurizio Bianconi accusò il presidente della Repubblica di “tradire la Costituzione”. Napolitano lo sfidò a chiedere l'applicazione dell'articolo 90, senza esito. Fu invece il Movimento cinque stelle, il 30 gennaio del 2014, a depositare contro di lui una richiesta di messa in stato di accusa per attentato contro la Costituzione, in particolare sulla trattativa stato-mafia. Ma l'11 febbraio successivo il Comitato parlamentare archiviò l'istanza come “manifestamente infondata”.