Alessandro Di Battista, nel 2015, durante la raccolta firme per il referendum sull'Euro (foto LaPresse)

M5s e Lega vogliono uscire dall'euro ma non hanno il coraggio di dirlo

Salvatore Merlo

Decrittazione di un’acrobazia lessicale. Il tentativo impossibile di rendere presentabile l’antieuropeismo

Roma. Era il 10 ottobre del 2014 e dal profilo twitter di Matteo Salvini partiva il seguente cinguettio, rivolto a Beppe Grillo, che aveva appena (ri)proposto in pubblico una delle sue tante ossessioni, il referendum per abbandonare la moneta unica. “I nemici dell’euro sono miei amici”, gli sorrideva Salvini, felice e consanguineo, impegnato in una caccia affannata allo stesso elettorato. “Incontriamoci”, lo invitava speranzoso. Diceva d’altra parte Luigi Di Maio, mentre firmava per il referendum contro l’euro, che “uscire dalla moneta unica significa più energia nostra, più investimenti, meno tasse, meno Troika e quindi meno stritolamento dei nostri connazionali”. Ne è passato di tempo, dall’autunno del 2014, e l’amore è finalmente sbocciato, a riprova che le affinità, quando sono elettive, rispondono a un rigido geometrizzarsi dei sensi. E però, dopo anni di iperboli, di sparate, di esagerazioni fuori scala comparativa, di turpiloquio scagliato ora contro Strasburgo ora contro Bruxelles, arrivati al dunque e forse spaventati dall’effetto delle loro stesse idee, nel contratto di governo i grillini e i leghisti non hanno avuto lo stomaco di guardarsi allo specchio e mettere nero su bianco l’immagine riflessa e già scolpita da una delle prime interviste di Salvini neoeletto segretario federale della Lega: “La nuova indipendenza è quella da Bruxelles”. Così bisogna proprio immaginarseli, piegati su queste quaranta paginette di contratto sottoposte ieri al voto della rete, collaborativi come Totò e Peppino, ma confortati dalla competenza amanuense di Calderoli e Spadafora, a cercare eufemismi e attenuativi, tipo “riconsiderare” , “rivalutare”, “rivedere”, tutte circonlocuzioni intricate che alludono allo sfascio dell’Unione europea, ma “con lo spirito di ritornare all’impostazione delle origini in cui gli stati europei erano mossi da un genuino intento di pace, fratellanza, cooperazione e solidarietà”. Perché nel loro linguaggio improvvisamente sorvegliato, Salvini e Di Maio con la loro corte di esperti, cercano di evitare la gaffe, e sostituiscono i concetti forti e chiari con le allusioni, le metafore e le allegorie, che manco la Divina Commedia. E così, niente meno, “con lo spirito di ritornare all’impostazione delle origini”, in questa pacifica ricerca dell’eden perduto, i dioscuri del grilloleghismo, tenui e carezzevoli assassini dell’Europa, come dei teneri Gavrilo Princip, lo sparatore di Sarajevo che innescò la Prima guerra mondiale, pretendono quello che nessuno gli potrà mai dare (dareste dei soldi a qualcuno, in cambio di niente?): una nuova politica monetaria, un nuovo patto di stabilità e crescita, un nuovo fiscal compact… E cosa mai succederà quando gli sarà spiegato che “non si può”, quando gli diranno: “No”? 

 

Già immaginiamo il rilassamento dei freni inibitori, lo schioccare della lingua, lo sciogliersi degli attenuativi e il ritorno alla virulenta e martellante campagna d’invettive. Ma stavolta condotta da Palazzo Chigi, e con le leve del comando pericolosamente tra le dita. “Il potere europeo è l’anticamera di una dittatura che si permette di entrare nel merito delle scelte dei singoli stati”, diceva Salvini, appena dieci giorni fa, mentre Grillo urlava: “L’Europa non ha futuro. Bisogna fare il referendum per uscire dall’euro”.

 

Sicuramente farebbe impazzire Heidegger, che cercava i sentieri interrotti nel linguaggio – o forse sarebbe piaciuto al conte Mascetti di “Amici miei”, il re della supercazzola – quel giro di frase in cui Di Maio e Salvini hanno fatto scrivere che “per quanto riguarda le politiche sul deficit si prevede, attraverso la ridiscussione dei trattati dell’Ue e del quadro normativo principale a livello europeo, una programmazione pluriennale volta ad assicurare il finanziamento delle proposte oggetto del presente contratto attraverso il recupero di risorse derivanti dal taglio agli sprechi, la gestione del debito e un appropriato e limitato ricorso al deficit”. La supercazzola ha sempre un senso riposto, un doppio fondo come le scatole dei maghi e dei truffatori: i trattati o li rispetti o non li rispetti. E se non li rispetti, allora ti metti fuori legge, cioè fuori da una comunità economica, politica e sociale. Ma questo, nel loro contratto di governo, Lega e M5s non lo dicono. La loro è un’acrobatica reticenza che somiglia alle labbra serrate di Di Maio o a quelle contratte di Salvini, labbra che alludono e custodiscono intenzioni pericolose. Mai si erano visti gli attenuativi dei populisti arrabbiati. Eppure c’è in queste parole cosmetiche anche la veritas, che una volta stava in vino e oggi sta in un contratto.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.