Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Un giudizio non “neutro” su Mattarella

Giuliano Ferrara

Il presidente della Repubblica ha compiuto, dissimulandole, due scelte politiche rischiose. Non ha rimandato alle Camere Gentiloni, come da logica, né dato l’incarico a Salvini, come da voti nell’urna. Forse ha azzeccato, ma è un’incognita che pesa sul suo ruolo

Con l’aria che tira, e i teppisti alle porte del potere, parlare in libertà di Sergio Mattarella richiede una certa freddezza, e un residuo di rispetto protocollare che non guasta. Il presidente è stato impeccabile e, come intonano i notisti vari, ha agito con “coraggio” e “dignità”, vabbè, questa la vogliamo passare intonsa, senza commenti, si usa così. Ma alcune cose, e non c’è la minima antipatia personale, sentimento anche troppo intenso trattandosi di una personalità incolore, anche per sua scelta, vanno dette. A suggello di una storia andata piuttosto male.

 

Tutto ciò che il presidente ha esternato per spiegare la sua scelta finale di un governo che chiede una maggioranza parlamentare impossibile, dopo che i rappresentanti del settantanove per cento del Parlamento allo sbando hanno già dichiarato senza aspettare la fine delle consultazioni che la data delle elezioni è a luglio, è lineare. Ho preso tempo in una situazione difficile, ho dato incarichi istituzionali rivelatisi perfettamente inutili, non ci sono maggioranze politiche ma solo veti e ripicche e ostruzioni, e per questa ragione propongo un governo “neutro” o “di servizio” a scadenza ravvicinata, che non è proprio un bel vedere dopo il “presidente della Cameriera” a Montecitorio (Vincino). Ma il senso di questa linearità qual è? Mattarella ha esplicitamente ammesso di aver fatto il notaio, quello che ascolta, riconduce tutto a regole più o meno certe e a usi più o meno noti, dopodiché si fa testimonio e garante di un atto, che però in questo caso non è una compravendita o un’eredità ma l’esercizio della sovranità parlamentare in un regime repubblicano.

 

Nel redigere l’atto e suggellarlo con il timbro, Mattarella ha denunciato in due passaggi la natura politica, sebbene accuratamente dissimulata, non tanto della sua volontà quanto della sua funzione oggettiva, che in tutta la storia della Repubblica (è questa la vera prima volta) non è mai stata quella del notaio. Ha detto (primo) che non può rinviare il governo attuale alle Camere, fissando senza indugi la data delle elezioni dopo un rapidissimo voto di sfiducia, e questo perché è l’esecutivo determinato da una maggioranza che non c’è più. Non essendoci in questo Parlamento una maggioranza, come da lui ampiamente testimoniato, il presidente avrebbe potuto tranquillamente approdare alla conclusione, come figura di continuità istituzionale, che ci tenevamo per gli affari correnti il governo espresso dall’ultima maggioranza conosciuta. Se non l’ha fatto, il che avrebbe consentito una data meno gravosamente vacanziera per le elezioni, è perché ha espresso un giudizio politico: non sta bene mandare alle Camere, sebbene non ci sia una soluzione, un governo battuto dagli elettori. E va bene. Sarebbe stato un penoso equivoco, d’accordo, ma è un giudizio politico. Lo stesso per l’incarico a Salvini: il presidente non lo ha dato perché, in caso di sfiducia delle Camere, avrebbe attribuito a uno schieramento un vantaggio che ha giudicato improprio. Qui il ragionamento politico è un tantino più arbitrario. Avendo avuto più voti della Merkel in Germania, forse lo schieramento guidato da Salvini, e mi costa anche il solo pensarlo, avrebbe avuto il diritto in linea di principio di provarci e, nel caso di una sconfitta, subirne le conseguenze, che ci sarebbero state anche quelle, e poi gestire gli affari correnti fino al voto, un vantaggio così così. Insomma, un altro giudizio politico del notaio, e stavolta anche mal dissimulato.

 

Il flop finale si capisce anche alla luce di questi paralogismi della ragion notara, e del contegno avalutativo, estraneo ai criteri costituzionali veri, da sempre tenuto al Quirinale da Mattarella, beninteso per scelta personale illibata, non per cattiveria o per dabbenaggine. Attraverso le varie Repubbliche, ché poi alla fine si è tornati alla parodia della Prima Repubblica, ma senza i partiti che la rendevano decifrabile e accettabile e funzionante, al Quirinale ci sono stati tra gli altri, costituenti a parte, Gronchi, Segni, Saragat, Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano. Tutti questi galantuomini hanno interpretato la parte diversamente dal modello del notaio. 

 

In tempi di crisi, di avvio delle legislature, o in tempi ordinari, o in situazioni cataclismatiche, hanno tutti giocato personalità e cultura politica fino in fondo: hanno promesso, mentito, minacciato, intimidito, hanno schiacciato sulla loro interpretazione delle regole i leader più riottosi, hanno definito paradigmi politici e urgenze e doveri spesso con inflessibilità, sempre passando per le contraddizioni dei partiti o dei movimenti, forzando il giudizio pubblico sui diversi fattori anche personali in gioco, sulle ambizioni degli interlocutori, insomma hanno sempre fatto politica, in certi casi borderline, ai limiti del costituzionale, con l’ausilio dell’ambasceria e del segreto lavorio dei loro rappresentanti. Discutibile, d’accordo, nessuno necessariamente rimpiange il rumore di sciabole di un Segni o le alzate di capo e di parola di un Cossiga Impiccababbu o le azioni di crisi di un Napolitano, ma una cosa è certa, in tanta incertezza: avessimo avuto Amato presidente della Repubblica, oggi con ogni probabilità avremmo un governo. Il Quirinale è stato disegnato dai padri della Patria come l’ultima risorsa del diritto e della carta fondativa della democrazia rappresentativa, il che significa una risorsa di politica, non un notaio. O se volete un soggetto passivo e ricettivo nelle forme, attento alla registrazione della volontà politica in ambito parlamentare, ma attivo e interventista nella sostanza, allo scopo, che solum è suo, di consentire, anzi promuovere, l’esercizio della sovranità come definito dal corpo elettorale, nel segno dell’interesse generale del paese. Può essere che alla fine un nuovo voto estivo non si riveli la porta aperta a nuove avventurose imprese dei teppisti della politica, può essere. In quel caso forse si potrà dire che Mattarella ha visto lungo, che il suo rifiuto pertinace e àtono di censurare, ammonire, mettere a posto le offese patenti alla democrazia repubblicana lanciate nell’aria e nelle stanze istituzionali dai giovincelli portati dall’onda demagogica è stato una misura di prudenza calcolata, un astenersi dalla manovra che era l’unica manovra possibile. Ma è un’incognita che pesa, per adesso, sul giudizio che lo riguarda.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.