“Di Maio è un prodotto di marketing. Lo sostituiranno”, dice Nicola Biondo
Intervista con l'ex capo della comunicazione M5s, autore di un libro in uscita sul “metodo Casaleggio”
Roma. “Gianroberto usava un’espressione secondo me paradigmatica di come funziona il Movimento cinque stelle. ‘Basta che ci credano’, diceva. In queste parole c’è un metodo e c’è una filosofia di marketing applicata alla politica”.
Nicola Biondo, quarantasette anni, è un giornalista, ex cronista giudiziario dell’Unità, e dal 2013 fino a luglio del 2014 è stato il capo della comunicazione del Movimento cinque stelle alla Camera: ha conosciuto tutto e tutti, dall’interno. Biondo ha assistito alla scalata di Luigi Di Maio, agli exploit iniziali di Alessandro Di Battista, all’ascesa di Rocco Casalino per vie traverse, alle gaffe e agli eccessi, ai colpi di fortuna e persino ai colpi di genio. Era amico di Gianroberto Casaleggio – “dal 2010 e gli volevo bene”, racconta – e assieme a Marco Canestrari, l’ex braccio destro del fondatore del Movimento cinque stelle alla Casaleggio Associati, ha pubblicato un libro, in uscita il 10 maggio per Ponte alle Grazie, che s’intitola “Supernova. I segreti, le bugie e i tradimenti del Movimento 5 stelle: storia vera di una nuova casta che si pretendeva anticasta”.
E certo quello di Biondo e Canestrari non è un libro simpatizzante, “ma esprime piuttosto il rammarico per cosa poteva essere il Movimento e cosa invece è diventato”, dice Biondo. “Gianroberto è stato un cattivo maestro, purtroppo. Ed è questo che noi raccontiamo. Raccontiamo un metodo, che si è perpetuato anche dopo la sua morte. Proprio quel ‘basta che ci credano’ che adesso sta scalando la democrazia italiana”. Ma cosa significa “basta che ci credano”? “Tanto per cominciare, per esempio, è la cravatta di Luigi Di Maio. E’ il travestimento da statista di un diplomato fuori corso”.
E insomma “basta che ci credano” sono i fantaministri competenti del governo Cinque stelle, è il contratto alla tedesca con il professor Della Cananea, è lo streaming, l’euro sì euro no, l’altalena delle posizioni, l’imbonimento e la suggestione, la potenza delle immagini e delle parole, l’uso consapevole dei moderni strumenti di comunicazione… “E alla fine”, dice Biondo, con il tono di chi tratteggia una distopia, “c’è anche l’idea che per fare politica sia sufficiente avere a disposizione un manipolo di creduloni, o degli scafati bugiardi, comunque gente disposta a ripetere a pappagallo quello che tu, il capo, la mente, gli scrivi. Un giorno chiesi a Gianroberto: ‘Ma davvero pensi che sia valido, che sia legale, il contratto che vuoi far firmare ai parlamentari europei, con le multe in denaro? Lo sai che non sarà mai applicabile?’. E lui: ‘Non importa. Basta che ci credano’”. Appunto.
Dopo le visite alle ambasciate, dopo gli interventi rassicuranti al Forum Ambrosetti, dopo i conciliaboli carezzevoli con gli investitori della City, dopo le “cortesie istituzionali” al presidente della Repubblica, preso atto che il governo non si fa, è tornato Beppe Grillo, ed è ritornata la richiesta di un referendum per uscire dall’euro. Da sotto la grisaglia di Di Maio sono sgusciate fuori le scie chimiche e il vaffa, che evidentemente stavano sempre lì, ben nascosti, come la parola “traditori” scagliata ieri contro quei partiti con i quali prima ci si voleva alleare, o come la chiamata al popolo, e la minaccia: ce la pagheranno.
“Questo è il linguaggio di Gianroberto, che di suo parlava poco, ma scriveva i testi di Grillo, e gli articoli sul blog”, dice Nicola Biondo. “Lui questa cosa la teorizzava. E l’ha pure insegnata a tutti: bisogna usare un linguaggio netto, privo di sfumature. Il Movimento deve rivolgersi a un pubblico che non vede l’ora di essere eccitato, di avere la bava alla bocca. E infatti la comunità del blog di Grillo è stata linguisticamente strutturata così. Mi ricordo quando Renzi diventò presidente del Consiglio. A Milano, alla Casaleggio Associati, fu stabilito che andava chiamato ‘ebetino’. E così fu. Gianroberto sosteneva l’efficacia dell’insulto diretto, personale. Come quando pubblicammo quello schifoso video sulla Boldrini con il titolo: ‘Cosa le fareste?’. Quella volta Casaleggio disse: ‘Abbiamo rischiato la querela, è vero. Ma il sentiment della rete era dalla nostra parte. E dunque abbiamo fatto bene’. Lui aveva testato il mercato del rancore, e capito che la gente gli andava dietro”.
Eppure Di Maio fino a due giorni fa e per tutta la campagna elettorale aveva cambiato linguaggio. “Di Maio è ambizioso. E disposto a molto. Ma non è il capo del Movimento cinque stelle. E’ uno sostituibile. E’ un altro prodotto di marketing. Anche se ambizioso. Ricordo quando Renzi, che stava chiedendo il voto di fiducia per il suo nuovo governo, venne alla Camera. Con Luigi si scambiarono dei bigliettini, portati a mano dai commessi. Renzi gli chiedeva: ‘Con chi devo parlare, con te o con Casaleggio?’. E Luigi gli faceva intendere che l’interlocutore era lui. Ma a un certo punto Di Maio si spaventò di questa cosa. Aveva paura di passare per traditore. Temeva una fuga di notizie. Così un giorno entra nella mia stanza. Aveva la cravatta slacciata e la fronte sudata. ‘Che devo fare?’, mi chiede. E io: ‘Dammi i bigliettini, che ne parlo con Gianroberto’. Casaleggio inquadrò subito la situazione: ‘Renzi sta solleticando l’ambizione di Luigi’. Ed era proprio così”.
Ambizioso, ma ubbidiente. “Di Maio non esiste senza Davide Casaleggio e senza Grillo. E’ un prodotto da scaffale”. Adesso però ha fallito la prova governista, forse non funziona più per un’altra stagione elettorale. “Forse no”, dice Biondo. “Ma non può fare la fine di Favia, e di altri che sono stati allontanati con un post scriptum sul blog. Non se ne possono liberare prendendolo seccamente per un orecchio. Lo sanno. C’è bisogno di un po’ di tempo. Si andrà a consunzione, e poi lo sostituiranno. Ma è tutto molto complicato adesso. Se parte la legislatura, se viene fatto un governo qualsiasi, loro che fanno? Nel 2019 ci sono le elezioni europee. E a quel punto il Movimento con quale pelle ci va? No euro, sì euro? Con i keynesiani o i neoliberisti?”. Insomma: con o senza cravatta? Si direbbe senza, stavolta. Ma anche no. Basta che ci credano.
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