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Chi è Giovanni Maria Flick, l'uomo giusto

Marianna Rizzini

Il nome ricorrente per l’eventuale terza via (con Di Maio e Salvini non protagonisti)

Non si può fare – è chiaro – ai margini delle consultazioni, come in “Making Mr. Right”, il vecchio film in cui lo scienziato che viveva dietro le quinte si metteva lì e costruiva da zero l’androide che sbrigasse affari correnti ed emergenze, pubbliche relazioni e incombenze, varie ed eventuali. “L’uomo giusto”, si chiamava la creatura di laboratorio che, sotto sotto, molti vorrebbero vedere pronta, ora, nel retropalco del faticoso (e macchinoso) avvio di legislatura. E però l’uomo giusto nessuno lo cerca, apparentemente, nell’affastellarsi di nomi, numeri, ipotesi, smentite, utopie e misteri che nascono e muoiono a margine degli incontri nella Loggia alla Vetrata, il luogo che fa da sfondo ai colloqui tra i vincitori, i vinti, i mezzi sommersi, i mezzi salvati, i salvati che sembrano sommersi e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma l’identikit dell’uomo giusto – uomo che da un lato dovrebbe essere senza qualità e dall’altro con troppe qualità – aleggia in ogni caso. Spunta la mattina per inabissarsi la sera, anche se al momento i vincitori non possono (ancora?) trasmigrare ufficialmente dal piano A, in cui si gioca al rialzo (Luigi Di Maio per ottenere se stesso a Palazzo Chigi, Matteo Salvini per ottenere il massimo dalla posizione di vincitore senza numeri che consentano l’indipendenza), al piano B, in cui si deve accettare obtorto collo l’eventuale “ipotesi terza”: il cosiddetto governo di emanazione quirinalizia, in caso di non percorribilità finale delle altre vie. E lì, attorno ai pensieri rarefatti ma riassumibili nel periodo ipotetico “e se Di Maio e Salvini non riuscissero a trovare la quadra…”, si coagula, zitta zitta, l’idea di riserva real-politica in cui i vincitori in senso ampio – compresa cioè Forza Italia, ma con Silvio Berlusconi non in prima fila – accettino una sorta di patto a tempo attorno a un nome di garanzia che assicuri la “parità di ruolo”, come ha scritto su questo giornale Giuliano Ferrara, “tra il leader della coalizione più votata Matteo Salvini e il leader del partito più votato Luigi Di Maio”, con Berlusconi “riluttante” ma dentro il quadro, e con l’ala più anti Cav. dei Cinque Stelle ridotta allo stato di mansuetudine.

   

La posizione su Bankitalia che lo rende simpatico agli antirenziani, e la riforma della Giustizia non fatta per via di D’Alema 

E il nome ricorrente, sebbene non unico, è quello di Giovanni Maria Flick, già presidente della Consulta e già ministro della Giustizia del governo Prodi I, giurista che nel 2016 ha votato “no” al referendum costituzionale, oltre ad aver scritto due libri sulla Costituzione, didattici anzichenò, motivo per cui, tra le altre cose, circa un anno fa, è stato molto corteggiato dalla Giunta Raggi per una consulenza. Acqua passata? Chissà (“il patto tra i vincitori sulla guida del governo”, ha scritto Ferrara, “non può che vertere su una personalità terza e rassicurante per la sua immagine, ma priva di potere reale… chi meglio di Giovanni Maria Flick?…”). E se Flick, non più tardi di tre settimane fa, ha definito “fiction” l’ipotesi di un governo centrodestra-Lega con il suo nome a far da perno, ieri, dopo i primi due giorni di consultazioni, il suo nome è circolato come quello di possibile personalità centrale neutra, anche se non equidistante, nella costruzione ipotetica apparentemente opposta: un governo – sempre a emanazione presidenziale, sempre formato a partire da un nome che piaccia ai Cinque Stelle – ma a cui il Pd di area non strettamente renziana non possa dire no, e questo mentre anche Forza Italia si spaccava in governisti e non. E il nome è sempre lo stesso: Giovanni Maria Flick. Colui che, per caso o non per caso, giorni fa veniva immortalato a Palazzo Madama nell’atto di stringere la mano all’ex premier e riserva della Repubblica Giuliano Amato, e a Luigi Zanda, senatore pd recentemente molto critico con Matteo Renzi. Particolari, questi, che subito hanno fatto pensare a una “rete Flick” già in via di tessitura. E subito si affollavano alla mente dei decrittatori di simboli post-elettorali gli indizi che portavano a individuare nel profilo dell’ex presidente della Consulta quello dell’uomo giusto a prescindere: “Bankitalia, ricordate Bankitalia”. E si cercava di scavare nella memoria alla ricerca dei momenti in cui il giurista Flick, esprimendosi su Bankitalia, avesse potuto dire cose gradite a questi e a quelli, e sgradite magari a coloro che adesso non sono favorevoli a un governo di ampia composizione. E qualcuno le sussurrava, infine, le parole: “Si stanno demolendo a picconate le istituzioni”, aveva detto Flick nell’ottobre del 2017, e cioè nel momento di grande esplosione del caso “Banca Centrale”, con l’ex premier Matteo Renzi che attaccava i vertici dell’istituto centrale: “Mi pare di capire”, aveva aggiunto Flick in quel frangente, “che stia montando il tema di addossare a Bankitalia la responsabilità…. Ora io non voglio entrare nel merito, non conosco i fatti e i dettagli, ma non mi pare che si possa scaricarla su Bankitalia…”. E, con approccio più che altro ma non del tutto tecnico, Flick aveva detto che quel tipo di impostazione gli pareva “rispecchiare una politica penale del credito degli anni Settanta del secolo scorso, quando per controllare la patologia creditizia, la ‘mala gestio’ nella concessione del credito, si arrivò ad elaborare la tesi che le banche sono pubblici uffici o pubblici servizi… Fu una lunga disputa, alla fine della quale, la Cassazione accolse la tesi che l’attività bancaria è un’attività d’impresa… All’epoca si rinunciò a studiare strumenti efficaci di controllo della patologia del credito, ritenendo sufficiente, e in fondo più comodo, delegare il controllo al giudice penale in termini di ‘mala gestio’ del denaro del pubblico. Confondendo in definitiva il denaro pubblico con il denaro del pubblico, che sono cose profondamente diverse”. E attorno alla memoria di quel Flick così poco renziano su referendum e Bankitalia si costruiva la fantasia dell’uomo adatto al frangente: gradito ai Cinque Stelle, non così sgradito ai settori possibilisti di Pd e Forza Italia (anche se nel Pd la precedente esperienza di Flick nei governo Prodi I costituisce per alcuni elemento di diffidenza: nonostante o forse proprio in virtù del profilo tecnico, Flick era stato allora accusato di azione “fuori linea” rispetto a quella della maggioranza).

  

Ex presidente della Consulta, ex avvocato di Raul Gardini. Per il no al referendum costituzionale, corteggiato dalla giunta Raggi 

L’uomo, comunque, e cioè il giurista-avvocato Flick, tradizionalmente ritratto con la pipa e i grandi occhiali neri rettangolari, ha una storia che lo rende digeribile anche nei settori più garantisti (trasversalmente). Intanto perché Flick, a suo tempo difensore di Raul Gardini, aveva proposto, a fine anni Novanta, una serie di misure per un’uscita meno conflittuale da Mani Pulite, poi chiamate per brevità misure di “patteggiamento allargato” e così spiegate dallo stesso Flick nel 2013, in un’intervista ad Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera: “…Si trattava di indurre le persone coinvolte ad ammettere le loro responsabilità, con attenuanti di pena ma con l’obbligo di risarcimento e l’interdizione dai pubblici uffici. Purtroppo ci fu una fuga di notizie… io fui processato politicamente, emersero le ipocrisie della sinistra e non solo di quella ‘giustizialista’, in molti chiesero la mia testa. Risposi che presto ce ne saremmo andati a casa tutti, il che in effetti avvenne… Neppure il governo Prodi riuscì a voltare pagina. Avevo preparato una riforma della giustizia: ma nel febbraio del ’97 fui fermato da D’Alema, che mi scrisse una lettera per dirmi di non intralciare i lavori della Bicamerale. Così la riforma non si è fatta”. Di Mani Pulite Flick ha tenuto con sé la memoria del dramma (non soltanto politico). Ne ha riparlato, a proposito del suicidio di Gardini, nella stessa intervista al Corriere: “… Gardini era terribilmente angosciato all’idea di non saper rispondere, spiegare, chiarire. Di non avere più gli elementi, da quando con il ‘divorzio’ era stato estromesso dalla famiglia Ferruzzi. Si sentiva un uomo fallito. Sono convinto che si sia ucciso proprio per questo: per il peso della sua sconfitta umana, familiare, imprenditoriale, e per l’angoscia di non sapere o di non potere documentare come le cose erano andate davvero”.

  

Ai fini dell’oggi, e agli occhi dei cercatori di indizi, significativa è apparsa l’intervista di Flick alla Stampa, il 31 marzo, in cui l’ex presidente della Consulta si faceva interprete della linea “per vedere il futuro, guardare al passato recente”: “… la trovata per le presidenze di Camera e Senato appare una soluzione lineare e istituzionale. Un buon segnale che supera la logica dei veti, l’arrocco di chi dice: non gioco più. Oppure: è lui che ha cominciato per primo. Un buon inizio, ma ora bisogna stare attenti alla logica di Sarajevo… Nel senso che se ora si riprende nella logica dei veti, a un certo punto si determina un incidente di percorso che nessuno vuole e che ti porta alle elezioni”. E delineava, Flick, l’accordo possibile tra vincitori: “Se andiamo oltre il politichese e restituiamo chiarezza alla lingua, vedremo che tra reddito di cittadinanza e di sopravvivenza non c’è molta distanza e lo stesso vale per diversi altri temi che dividono Cinque stelle e Lega. Io guarderò da una finestra. Ovviamente spetta ad altri decidere chi proporre. Sperando però che finisca tutto, non necessariamente presto e neanche con troppa cautela. Semmai con la calma necessaria a trovare la soluzione migliore per il Paese”. Che avrà voluto dire, Flick, ci si è domandati alla vigilia del primo giro di consultazioni? Fatto sta che Flick ha già vissuto stagioni di non facile decrittazione (non ultima la stagione elettorale 2013, in cui lo si vide accanto al fondatore di Centro democratico Bruno Tabacci). Procedendo a ritroso, le parole dell’ex presidente della Consulta portano comunque sempre a un profilo di giurista non renziano (e però il suo nome era stato fatto anche per il posto di Guardasigilli nel governo Renzi), ma neanche appiattito sul modello “Rodotà-tà-tà”, dal nome del compianto professore.

   

Cattolico di studi gesuitici. Bifronte sulle intercettazioni. A favore del compromesso trovato per le presidenze delle Camere

E insomma Flick – ex presidente di Consulta di lontane origine tedesche, studi gesuitici a Torino e famiglia numerosa (è il quinto di sette figli), quando si è trattato di spiegare i motivi del suo “no” al referendum costituzionale promosso dall’ex premier Renzi, a fine 2016, ha avanzato critiche “di metodo e di contenuto: “La cosa di metodo è il modo con cui si è arrivati alla riforma, cioè una ricerca di maggioranza molto variata. Quanto ai contenuti vedo una certa contraddizione tra l’aver varato un Senato delle Regioni …quindi una tendenza a valorizzare la dimensione delle autonomie locali… e un forte accentramento delle competenze legislative da parte dello Stato”. E quando si è trattato (nel 2015) di commentare il ddl sulle intercettazioni, Flick ha buttato sul piatto i dubbi: “Il testo sembra voler punire chi diffonde le intercettazioni, non chi le fa. E questo mi sembra un po’ freudiano… registrare il contenuto di una conversazione privata, e magari divulgarlo, lecito perché, come la Cassazione ha ripetuto… quando io parlo con una persona accetto il rischio che registri e diffonda ciò che ci siamo detti… l’articolo 15 della Costituzione considera inviolabili la libertà e la segretezza della conversazione che, quindi, va difesa solo contro le intercettazioni di terzi, non contro l’uso che uno degli interlocutori faccia di quanto è stato detto”. Però poi, nel 2017, sempre in tema di intercettazioni, Flick era parso più garantista: “Per garantire la libertà di informazione non è necessario utilizzare frasi testuali, prese dal lessico comune, che servono solo per fare gossip o addirittura umiliare le persone. Sa quanti di noi, se fossero pubblicate le loro telefonate, verrebbero bruciati in piazza Campo dei Fiori senza aver commesso alcun reato? E’ giusto che l’opinione pubblica conosca il contenuto, ma i processi si fanno nelle aule di tribunale”.

  

Si è sempre autodefinito “cattolico vecchio”, Flick, altro motivo per cui la sua possibile rete viene considerata solidissima. “Cattolico vecchio” per formazione e per collocazione, a lungo stimato dal cardinale Tarcisio Bertone, ex segretario di Stato vaticano. Ma è l’altra autodefinizione, data un giorno all’Unità, che può forse illuminare il prossimo futuro: “Mi sento come la formica del film ‘A bug’s life’, un rompiscatole messo un po’ da parte che alla fine trova il modo di sconfiggere il popolo delle cavallette”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.