Luigi Di Maio (foto LaPresse)

Berardinelli, ma che hai fatto?

Alfonso Berardinelli

Mi sono accorto di avere votato M5s solo dopo averlo fatto. Vi spiego perché

Solo dopo aver votato 5 stelle mi sono accorto di averlo fatto. Lo dico perché è probabile che qualcosa di simile sia capitato a un buon numero di elettori. Più che una libera scelta, la mia è stata una specie di coazione. Queste elezioni hanno soprattutto espresso una forma o più forme di italiana disperazione politica. E sulla disperazione, quando è così diffusa, c’è poco da scherzare e da deplorare. L’elettorato non è fatto di politologi, o politici, o commentatori specializzati. E’ fatto di individui che nonostante consumino dosi massicce di talk-show e di teatri politici televisivi, sono nauseati dalla politica, vorrebbero pensare ad altro, sono preoccupati di altro. Di che cosa? Ovviamente soprattutto di due cose: benessere e sicurezza. Prima il benessere, che significa anche un minimo accettabile di sicurezza economica, oltre che sociale e ambientale. Poi di sicurezza nel senso di mancanza di ansie e di paure dovute anzitutto a due percezioni: 1) che lo stato italiano non funziona, è una macchina guasta, è assente, è infestato di parassiti e di corrotti; e 2) che l’identità sociale precedentemente nota è destabilizzata, modificata, in continua metamorfosi a causa delle grandi, inesauribili migrazioni: cioè di problemi drammatici che i cittadini sentono di non aver prodotto, problemi che arrivano qui, ora, partendo da fuori e da lontano, da altri luoghi e da altri tempi. Negli anni Trenta Orwell diceva che la classe operaia inglese faceva finta di non sapere, o non riusciva a concepire, che il proprio paese possedesse il più vasto impero coloniale del mondo, in cui viveva un altrettanto vasto proletariato esterno di quasi schiavi le cui condizioni erano peggiori di quelle di qualsiasi operaio britannico. Si parla, si è parlato, si parlerà in queste giornate post elettorali di “crisi della sinistra” in Italia, in Europa, forse in tutto l’occidente. La sinistra è così in crisi perché ha perduto il suo storico, naturale populismo: la capacità, un tempo ovvia e doverosa, di sentire e capire le cose dal punto di vista della maggioranza che sta “out and down”. E chi si trova fuori e in basso? Sono i giovani disoccupati o sottoccupati, i vecchi con pensioni da fame e senza assistenza, ma anche coloro che a quaranta e cinquant’anni vorrebbero intraprendere qualcosa e si scontrano con normative amministrative e lentezze burocratiche esasperanti.

 

Sembra quasi che la sorpresa suscitata dal risultato elettorale abbia origine in un insistente tic verbale e mentale, nel cattivo uso del termine populismo. Queste elezioni non esprimono altro che un disperato bisogno di populismo e di antipolitica, cioè di critica del ceto e del sistema politico in Italia. L’antipolitica sarà brutta e pericolosa. Ma la politica spesso è anche peggio. E questo da decenni, se non da sempre. Non si tratta di rottura di una nobile e razionale tradizione politica fatta di valori solidi e di competenze accertate: si tratta piuttosto di gerontocrazia, di carriere politiche che non finiscono mai, perpetuando privilegi inaccettabili che creano disgusto nella maggioranza di coloro che non fanno politica.

 

La crisi delle sinistre europee non è solo carenza di mezzi per finanziare la copertura statale che garantisca un minimo di reddito e di servizi essenziali. C’è un’altra causa: la base sociale delle sinistre ora è instabile, frantumata, non ideologizzata e prevalentemente xenofoba. Una base sociale dei cui istinti le dirigenze di sinistra si vergognano e che non sanno, non possono, non vogliono interpretare. Dagli anni Novanta in poi gli europei sono molto meno di sinistra di quanto fossero nei decenni precedenti. Si sentono invasi da oriente e da sud, devono fare i conti in casa propria con gli effetti della colonizzazione e del sottosviluppo in Africa, Asia, America latina e con i postumi patologici del comunismo.

 

I 5 stelle sono (ancora) un corpo estraneo nel sistema politico italiano. Sono fuori e per questo attirano chiunque sia o si senta fuori. A giudicare dal risultato elettorale si tratta di molti, di troppi: un terzo degli elettori. Il voto ai 5 stelle ha assorbito una notevole quota di potenziali non-votanti che all’ultimo momento hanno deciso di votare. Una decina di giorni fa, in un articolo sul Corriere della Sera, Gianfranco Pasquino ha spiegato che non esiste un partito di chi si astiene e che “nel prossimo Parlamento italiano non ci sarà nessun rappresentante del partito degli astensionisti”. Se devo giudicare partendo da me stesso (cosa non molto scientifica) il voto sorprendente ai 5 stelle ha dato voce a diverse categorie di astensionisti. Secondo l’analisi di Pasquino le loro motivazioni erano diverse: alcune calde (rabbia, rifiuto) e altre fredde (apatia, disinteresse). Non trascurerei un misto equilibrato di rabbia e apatia, dato che la rabbia impotente genera apatia e l’apatia prolungata può esplodere in rabbia.

 

Detto questo, l’identikit dell’elettore (non del militante!) 5 stelle è quasi perfetto. Per quanto mi riguarda, con un po’ di autoanalisi potrei dire che sono una specie di anarchico radicale che per discrezione recita di solito la parte del liberaldemocratico. Ma quando la disperazione e la sfiducia politica aumentano, può prevalere, in me come in altri, un radicalismo che è nello stesso tempo pessimista e ottimista. Nei 5 stelle non credo: alcune o molte delle loro promesse non sono realizzabili né augurabili (disapprovo moralmente come demagogico il “reddito di cittadinanza”). Ma alla fine questo risultato elettorale spezza gli equilibri stabiliti, può svegliare e dinamizzare (anche per reazione) il sistema politico. Del resto lo “sperimentalismo” è una categoria centrale dell’occidente moderno sia nelle scienze esatte che nelle arti. Lo dicono anche i politologi: quando il gioco elettorale si fa duro e l’esito è davvero incerto, anche gli astensionisti finiscono per votare. Magari d’istinto, a fiuto, a caso e all’ultimo momento, per fare un esperimento con una formazione politica in cui non si crede finché non si vede cosa farà. Come tutti sanno, l’epoca delle fedi politiche è finita. Preferisco lasciarli sbagliare piuttosto che lasciarli soltanto parlare.

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