Dario Franceschini (foto LaPresse)

Tutti gli uomini di Franceschini, l'uomo più studiato a sinistra

Marianna Rizzini

D’Alema guarda a un “governo del presidente”, e la “variante ministro della Cultura” poggia su molti nomi

Roma. “Certo non te lo trovi a tavola con l’imprenditore di formaggi o simili”. Ed è chiaro che in questa battuta di un renziano non sedotto dal mito di Oscar Farinetti, patron di Eataly, c’è tutta la Weltanschauung franceschiniana, e cioè la visione del mondo (quantomeno momentanea) del ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, colui a cui molti hanno pensato ieri, leggendo sul Corriere della Sera l’intervista in cui Massimo D’Alema, il transfuga più famoso della storia Pci-Pds-Ds-Pd (e ora pilastro Mdp), nonché l’uomo che Franceschini un giorno descrisse come un “non nemico”, disegnava a parole i contorni di un prossimo governo del presidente: il 5 marzo “occorrerà un ragionevole sforzo per garantire la governabilità”, diceva D’Alema, “una convergenza di tanti partiti diversi attorno a obiettivi molto limitati”. E se è vero che, al momento, nel centrosinistra, a voler proprio immaginare un futuro premier, quando si smette di pensare a Matteo Renzi si comincia a pensare a Paolo Gentiloni (sempre che le urne non siano troppo matrigne), è pure vero che l’uomo considerato più a suo agio nella gestione trasversale e anfibia delle paludi politiche – dai tempi in cui era un giovane democristiano con il mito di Benigno Zaccagnini – risponde appunto al nome di Dario Franceschini. Ministro tra i più popolari del governo Renzi nonché ministro della Cultura con longevità record nella storia della Repubblica. Ministro dall’alto share (per esempio a “Otto e mezzo”, l’altra sera, in veste di antipopulista contro lo storico dell’arte Tomaso Montanari) che a volte per diletto si fa scrittore e che per realpolitik si fece a un certo punto assai lettiano (e però, nell’anticamera del cambio di governo Letta-Renzi, fu udito discutere con Letta nel cosiddetto, famoso “teso chiarimento” che sancì lo slittamento poi detto cambio di fronte).

  

Ma se questa è storia di ieri, la storia di oggi vede il ministro della Cultura – sempre lui – al centro delle dietrologie e anche delle prefigurazioni di un futuro quanto mai nebbioso: che fa Franceschini? si domandano infatti gli aruspici che ancora lo considerano perfettamente rappresentato dalla boutade degli ex compagni democristiani, che così parafrasarono per lui un slogan pubblicitario Barilla: “Dove c’è Franceschini c’è maggioranza”. Fatto sta che non sono più tempi in cui, come nel 2009, l’allora arrembante Renzi definiva “disastro” il Walter Veltroni ex segretario pd e “vicedisastro” il reggente Franceschini. Infinite paiono oggi infatti le strade franceschiniane, personali e correntizie, anche se la corrente Area Dem, un tempo tenuta a mezzadria con Piero Fassino, a un certo punto non è stata più sufficiente a dare plastica idea degli smottamenti (di partito e non) a favore del ministro, ma anche a volte all’insaputa del ministro, conosciuto non per niente come colui che nel centrosinistra sa fiutare i rapporti di forza, motivo per cui non muove passo che la sua gamba non possa reggere. E allora viene a galla l’altra domanda: chi sta con Franceschini? La mappa degli estimatori di Franceschini e delle persone su cui il ministro può contare o che hanno, a vario titolo, ottimi rapporti con lui, si estende infatti da Che Guevara a Madre Teresa, per dirla con il recente fan del ministro, Lorenzo Jovanotti. Si dà il caso, infatti, che Franceschini possa dire di conoscere bene qualcuno in Mdp (il responsabile Comunicazione e deputato Piero Martino, suo ex portavoce storico). Ma lo stesso Franceschini può dire anche di conoscere bene qualcuno presso il Quirinale, a partire dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nel 1999 diede a lui il suo sostegno al congresso del Ppi, per arrivare al giornalista e deputato franceschiniano Francesco Saverio Garofani, finora trait d’union informale tra Quirinale e Parlamento, passando per Ugo Zampetti, segretario generale della presidenza della Repubblica, per Gianfranco Astori, consigliere del Presidente dalla storia saldamente democristiana, per Giovanni Grasso, portavoce del Presidente con lungo passato al Popolo, per Simone Guerrini, capo della segreteria, e per il molto ascoltato Gianclaudio Bressa, sottosegretario nei governi Letta e Gentiloni nonché anfitrione di una cena estiva molto citata, mesi fa, come “la cena dei franceschiniani”.

 

Ma Franceschini è anche l’uomo che ha, per così dire, scippato a Walter Veltroni l’esclusiva dell’amore degli artisti: non soltanto Jovanotti, infatti, ma anche l’attore Roberto Benigni e i registi Paolo Virzì, Daniele Luchetti e Gabriele Salvatores, e i cantanti Francesco De Gregori e Claudio Baglioni stimano il ministro di stima ricambiata: i registi anche per via della legge sul cinema e i cantanti, non da ultimo, per l’impegno profuso dal ministro nella cosiddetta “battaglia del diritto d’autore” in chiave anti-Soundreef, scelta invece dal rapper Fedez, odiatore di Franceschini almeno quanto il suddetto Tomaso Montanari. La legge sul cinema piace naturalmente ai “100 autori”, ai distributori (Andrea Occhipinti) e ai produttori (Francesca Cima) in seno all’Anica, l’associazione industrie cinematografiche presieduta da Francesco Rutelli, con cui Franceschini ha buoni rapporti non soltanto per il passato politico ma anche per la questione “caschi Blu della Cultura”, la cui nascita è stata caldeggiata dal governo, e quindi da Franceschini, e da Rutelli in veste di vertice dell’associazione da lui guidata “Incontro di Civiltà”, ideatrice della mostra sulla ricostruzione dei manufatti distrutti dall’Isis. Non piace invece ai broadcaster, la gestione Franceschini, come ha fatto notare qualche tempo fa Giancarlo Leone, ex amministratore delegato di Rai Cinema e ora presidente dell’Associazione produttori televisivi che, nelle audizioni in Commissione alla Camera e in Senato, ha definito i provvedimenti della legge a favore del cinema “disallineati” rispetto al futuro dell’audivisivo. Agostino Saccà, invece, ex dg Rai oggi produttore cinematografico e televisivo con la Pepito produzioni, loda Franceschini “per l’attitudine all’ascolto” e lo definisce “benemerito nell’industria culturale italiana”. Spostandosi sul lato museal-artistico, a parte gli ottimi rapporti con il presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta e con il presidente del Fai e archeologo Andrea Carandini, il ministro può annoverare intese cordiali con i due simboli della sua riforma dei musei (Mauro Felicori, direttore della Reggia di Caserta, e Massimo Osanna, soprintendente della Soprintendenza Speciale di Pompei), con la direttrice della Gnam Cristiana Collu e con il professore bocconiano di Economia dell’Arte Stefano Baia Curioni. Ma al ministero dei Bene Culturali il “golden boy” franceschiniano si chiama Lorenzo Casini, consulente giuridico di scuola Sabino Cassese e di famiglia post-veltroniana.

 

Non meno numerosi sono gli addentellati del ministro nell’area dell’informazione: ottimi sono infatti i rapporti con il dg Rai Mario Orfeo e con il mondo vecchio e nuovo di Repubblica (dal Ezio Mauro a Mario Calabresi) nonché con il direttore della Stampa Maurizio Molinari e con quello del Messaggero Virman Cusenza, mentre in ambito “rapporti tra politica e tv” Franceschini da sempre ha un suo “uomo” in Antonello Giacomelli, sottosegretario allo Sviluppo con delega all’Informazione. Poi c’è il caso particolare di Salvo Nastasi, super-renziano e grand commis del Mibact che Renzi ha portato a Palazzo Chigi come vicesegretario generale alla presidenza del Consiglio (e incarico sulle grandi riforme della cultura). Nastasi ha un solido rapporto con Franceschini, ma resta in ogni caso, e senza ombra di dubbio, renziano di ferro.

 

E se Franceschini non siede con gli “imprenditore del formaggio”, tuttavia non disdegna i contatti con il mondo stilistico-mecenatesco (tipo Fendi) e con i manager delle grandi aziende (tipo Enel, Eni, Terna). All’antica? Postmoderno? Non si sa. Fatto sta che ogni suo movimento, in questi giorni, è studiato, dentro e fuori il Pd, come fosse presagio di chissacché.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.