Alcide de Gasperi (foto LaPresse)

Rileggere la storia di De Gasperi per capire come battere i populismi

Sergio Soave

Un libro di D'Ubaldo con una chiave inedita sullo statista dc

La figura di Alcide De Gasperi, centrale nella vicenda storica del dopoguerra in Italia e in Europa, è stata analizzata in vari saggi e sotto diversi profili, dall’antifascismo all’anticomunismo, dalla laicità al clericalismo: con il saggi “De Gasperi l’antipopulista”, edito da Accademia degli incolti - Gaffi editore, Lucio D’Ubaldo ha scelto una prospettiva diversa, particolarmente interessante in questi tempi, quella del contrasto con il “populismo”.

  

Non si tratta di una specie di adattamento di una analisi storica alle mode del presente: nella vicenda degasperiana il pericolo di derive populiste si presentò in varie occasioni e in diverse forme ed esaminare come lo statista trentino le contrastò efficacemente non è affatto inutile.

 

La prima tendenza populista con cui si trovò a confrontarsi fu quello che potremmo chiamare il populismo dei cattolici italiani, che erano stati separati dallo stato liberale almeno dal 1870 e si erano sperimentati in attività assistenziali, cooperative, amministrative a livello locale, senza però esprimere una presenza propria e riconoscibile al livello della politica nazionale. Fu Luigi Sturzo a rompere questo schema costruendo un partito laico di ispirazione cristiana, indipendente dalla gerarchia e promotore di una riforma dello stato basata sull’esaltazione delle autonomie locali e dei corpi intermedi, ma che avrebbe dovuto essere guidata da un partito, responsabile in proprio elle scelte politiche. De Gasperi fu fin dall’inizio al fianco di Sturzo, e portò, anche grazie alla sua esperienza politica nel parlamento di Vienna, un contributo di realismo e di competenza. Dopo lo scioglimento forzato del Partito popolare, quando si ripresentarono le condizioni per una azione politica, si ripropose lo stesso dilemma. Il “popolo cristiano” doveva agire come tale, distribuendosi secondo le preferenze politiche e con la volontà di far valere nelle varie case politiche i principi evangelici, o doveva unirsi in un partito di ispirazione cristiana? Non mancarono autorevoli esponenti della gerarchia che optarono per la prima soluzione, meno impegnativa e che lasciava le mani libere alla Chiesa. Anche tra i giovani della Fuci, formati da Giovanni Battista Montini, questa ipotesi aveva spazio, e fu solo l’amicizia e la stima tra il futuro Paolo VI e l’ex segretario popolare a saldare la nuova generazione con i vecchi popolari nella costruzione della Democrazia cristiana. Aspetti della concezione populista della presenza cattolica in politica rimasero anche nella Dc e trovarono espressione soprattutto nella sinistra di Giuseppe Dossetti, che in sostanza rifiutava i vincoli del sistema di alleanze centrista, a favore di una integrale (o integralistica) applicazione della dottrina sociale. De Gasperi superò queste tensioni mettendo “alla sbarra”, cioè alle prese con responsabilità dirette di governo gli esponenti di questa tendenza, da Aldo Moro ad Amintore Fanfani e fu nella fucina dell’esperienza concreta della politica che le fumisterie utopistiche populiste svanirono.

 

Va ricordato, e nel libro di D’Ubaldo lo si fa con notazioni anche originali, che oltre al “populismo” cristiano integralista, tendenzialmente di sinistra, si profilò anche un “populismo” clericale che criticava la politica delle alleanze centrista ritenendola troppo angusta, mentre per contrastare efficacemente il pericolo comunista sarebbe stata necessaria una apertura esplicita alla destra monarchica e neofascista. I comitati civici organizzati da Luigi Gedda, che avevano dato un contributo rilevante nella battaglia elettorale cruciale del 1948, per timore di un’affermazione dell’estrema sinistra nella città dei Papi, premettero per un’alleanza di questo genere nelle elezioni del Campidoglio, ottenendo anche il patrocinio di Sturzo. Anche contro questa insorgenza populistica clericale De Gasperi dovette resistere, e lo fece con successo anche a costo di una tensione con lo stesso Pontefice.

 

Anche sul terreno della costruzione di una presenza italiana nell’area internazionale, a cominciare dalla faticosa costruzione europea, De Gasperi dovette fare i conti con le generose ambizioni dei federalisti che pensavano a una specie di autogoverno del “popolo europeo”. De Gasperi sentiva lo spazio europeo come essenziale, all’interno del sistema occidentale, per ridare all’Italia (e alla Germania occidentale) che non erano nemmeno ammesse alle Nazioni unite, una prospettiva di rinascita economica e civile. Il suo europeismo realistico e interstatale fu quello che, anche con sconfitte come quella della Comunità europea di difesa, alla fine si affermò.

 

La lettura attenta di questo versante specifico dell’azione politica di De Gasperi, esaminata anche con testimonianze specifiche, rende assai utile lo sforzo di attualizzazione del pensiero degasperiano svolto nel saggio di Lucio D’Ubaldo.

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