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Speranza, il leader sempre annunciato e sempre scavalcato

Marianna Rizzini

Lo strano caso del giovane coordinatore di Mdp (ex Pd). Tutti lo vogliono e tutti pensano ad altri (Bersani? Grasso? Chiunque?)

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Roma. Stavolta è andata così, nella piazza di sinistra-sinistra in protesta sulla legge elettorale. Stavolta, per il giovane Roberto Speranza, deputato ex Pd e coordinatore di Mdp, già considerato, per lo spazio di un mattino, il volto da combattimento della gauche dalemian-bersaniana, si è prodotto lo scomodo caso di ritrovarsi a dover dire che, come possibile capo della sinistra-sinistra, “certo Bersani è il più forte in popolarità e consensi”. Non solo: nella piazza il divo mediatico non era lui, Speranza, per carattere e fisiognomica non molto adatto ai protagonismi, ma Massimo D’Alema in persona, sorridente e calmo, circondato di fedelissimi e nuovi amici che neanche più lo considerano, per dirla con Nanni Moretti, il leader con cui mai si potrebbe vincere una competizione elettorale. E insomma nella piazza a tutti si pensava, come possibile leader: a Pietro Grasso, a un Papa straniero nascosto, ad Anna Falcone del “no” al referendum.

 

Persino, con riflesso eretico, a un Giuliano Pisapia perso pochi giorni prima (lite Mdp-Campo progressista) ma mezzo ritrovato sulla soglia della battaglia anti-fiducia. Addirittura qualcuno, nella folla, sognava un ritorno di Nichi Vendola, rilassato dietro all’occhiale nero. A tutti si pensava, dunque, tranne a colui che dal primo giorno pareva predestinato a portare avanti la bandiera della vendetta post-rottamazione: altro partito, altra partita, e un giovane in campo. Macché. E dire che la volta precedente, a fine 2016, a Speranza era andata quasi meglio. L’ex capogruppo dem ammutinato, infatti, aveva deciso di candidarsi in chiave antirenziana al congresso del Pd, giusto poco prima di uscire dal Pd per tentare l’avventura in Mdp, traslocando, con se stesso, anche la croce e delizia dell’etichetta “delfino di Bersani”. Ed era andata meglio perché Speranza, ex paladino di qualsiasi battaglia per il “no” nel Pd (no alla Buona scuola, al Jobs Act, all’Italicum, al referendum costituzionale), uscendo dal Pd non si era dovuto cimentare con la condizione di leader annunciato e poi lasciato come oggi un po’ così, a bagnomaria, con tutti che a parole ti stimano – ma quanto è bravo Speranza, ma quanto è serio Speranza – e poi nei fatti pensano ad altro (nello specifico, agli altri futuri candidati di minoranza al congresso del Pd: Andrea Orlando e Michele Emiliano).

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E meno male che, per Speranza, era sopraggiunta la provvidenziale scissione. E però, dopo la scissione, era ricominciata la solfa: un leader, ci serve un leader (giovane, se possibile). E mentre già si affacciava, a sinistra, l’alternativa meno anti-Pd dell’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia, a Roma si volgeva lo sguardo verso il candidato naturale a una posizione di prima linea a tempo (finché non rispunta un big del passato?), e cioè al lucano mite e allarmato Roberto Speranza, colui che nel 2014 aveva dovuto tenere testa a un inferocito Alessandro Di Battista nella sala stampa della Camera (“tàgliati lo stipendio”, aveva detto Di Battista a Speranza; “fascisti”, aveva risposto Speranza, che ora “fascisti” non può certo dirlo a chi ha messo la fiducia sul Rosatellum, a differenza di Di Battista, pena la caduta del sottile velo che separa la protesta grillina da quella dalemian-bersaniana). E invece niente. Invece c’è sempre qualcuno che, proprio mentre Speranza va a parlare per tutti, ha un altro nome pronto nel cassetto.

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