La versione di Salvati

David Allegranti

Veltroni, Bersani, Renzi, l’Europa che manca, il rapporto con la giustizia, la sfida dei populismi. A 10 anni dalla nascita, il suo maggior ideologo ci racconta come sta il Pd

Roma. Dice Michele Salvati, ideologo del Pd, quel Pd nato dieci anni fa (era il quattordici ottobre del 2007), quel Pd di cui era stato il primo teorizzatore proprio sul Foglio (era il dieci aprile del 2003), insomma dice Salvati, economista e politologo, che il Pd ha di fronte a sé alcune sfide, alcuni problemi da risolvere e alcuni punti fermi. Il Pd in questi dieci anni è cambiato, così com’è cambiato il contesto. Dunque è lecito porsi qualche domanda. Quanto si avvicina il Pd di oggi al disegno che aveva in testa Salvati quando teorizzò la nascita di un partito ispirato al liberalismo di sinistra, europeista, in Italia? Che cosa manca al Pd? Può un partito che nasce saldamente maggioritario reggere in un orizzonte proporzionalista come il nostro? Salvati non si sottrae alle domande del Foglio e ne ragiona a lungo. Domanda: professore, a distanza di dieci anni, il Pd assomiglia ancora alla creatura che lei aveva in mente? “Sì. Per alcuni aspetti ancora di più. All’inizio, nel 2007, il Pd di Veltroni non aveva una base di sostegno all’interno del partito. Era una ‘ditta’ i cui azionisti erano gli ex comunisti e i democristiani di sinistra, in parte ancora dubbiosi che si dovesse eliminare il trattino che li distingueva. Era un partito nato in circostanze elettorali, quasi per necessità e molto in ritardo, a seguito delle difficoltà del secondo governo Prodi e della necessità di presentare agli elettori un governo diverso da quello dell’Unione. Veltroni era stato costretto ad accettare appoggi e veti da parte dei quadri dirigenti del partito. Se c’è una cosa su cui invece Renzi ha avuto successo è che sia con la prima segreteria che con la seconda ha preso in mano il Pd. Poi certo, sono nate anche le prime correnti in seno al partito renziano, ma quantomeno a livello nazionale il partito è solidamente nelle mani di Renzi”.

 

Con Renzi segretario
per la prima volta abbiamo un partito
di sinistra di governo ispirato dal liberalismo di sinistra

Cosa diversa, aggiunge Salvati, “sono i partiti locali, spesso nelle mani di dirigenti che dispongono di autonomia eccessiva e nutrono molti dubbi sull’innovazione prodotta da Renzi. Uno dei compiti più difficili del segretario del Pd è oggi persuadere i dirigenti locali che il mutamento strategico del partito democratico è nel loro stesso interesse e impedire pratiche troppo dissonanti con la strategia nazionale”. Comunque, la cosa che Renzi è riuscito a fare “è sorprendente, perché per la prima volta abbiamo un partito di sinistra di governo, la cui ideologia in senso lato è il liberalismo di sinistra. Ai tempi dei Ds questo orientamento, nel congresso di Pesaro, valeva il 4-5 per cento. Adesso invece è il punto di forza di Renzi”.

 

Per sapere che cos’è il Pd, Salvati consiglia la lettura di “un bellissimo libretto, utile a capirne la storia”, pubblicato da Giappichelli Editore e scritto da Paolo Natale e Luciano Maria Fasano: “L’ultimo partito. Dieci anni di Partito Democratico”. “E’ un’analisi spassionata e simpatetica ma non ideologica su che cos’è il Pd, attraverso l’analisi della sua leadership”. Il Pd infatti in questi pochi anni è stato molte cose, dice Salvati. “C’è stato il partito di Veltroni, un ‘amalgama mal riuscito’, come disse D’Alema, in cui le convinzioni dei principali dirigenti facevano a pugni con quelle del Segretario. Poi c’è stato il partito vecchio stile di Bersani, con la rivincita dell’orgoglio Pds-Ds, e infine è arrivato il partito pragmatico di Renzi. Sono tre partiti, per strategia politica e organizzazione, molto diversi l’uno dall’altro. Il Pd di Bersani è arrivato come reazione inevitabile alla sconfitta elettorale di Veltroni e sulle orme di una vecchia idea, dalemiana, per la quale il partito di sinistra non corre da solo, non ha ambizioni maggioritarie e quindi fa alleanze. Questa impostazione si è trasferita, attraverso le elezioni politiche di cinque anni fa, nel quadro parlamentare che abbiamo, ed è sorprendente, e non troppo rassicurante, quanto sia larga la maggioranza di parlamentari che poi hanno seguito Renzi. La straordinaria vittoria di Renzi alle primarie e poi alle europee ha ovviamente contribuito allo spostamento di parlamentari in origine bersaniani”.

 

In un sistema proporzionale,
il segretario può anche non essere il candidato premier. Una scelta
che non tradirebbe
lo spirito del Pd

A Salvati venne voglia di teorizzare la nascita del Pd durante la sua esperienza parlamentare nella commissione bicamerale di Massimo D’Alema di cui era membro. “Pensavo a qualcosa che fosse l’evoluzione necessaria dell’Ulivo, a un centrosinistra senza trattino e con un’anima, con un soffio vitale. Qualcosa di diverso dalla pura giustapposizione di diverse culture tradizionali, dall’unione della cultura cattolico-democratica ed ex comunista, alla luce del fallimento comunista e delle difficoltà democristiane. L’influenza non era tanto quella della Terza Via ma soprattutto della grande sinistra intellettuale liberal americana: John Rawles, Ronald Dworkin, Amartya Sen, sino a Michael Walzer. Mi sembrava, e mi sembra tuttora, che questa fosse l’unica visione politico-culturale cui potesse appoggiarsi un partito di sinistra con ambizioni di governo nell’attuale fase del capitalismo, se riconosceva il fallimento del comunismo, le difficoltà che incontravano le socialdemocrazie dei ‘trent’anni gloriosi’ del dopoguerra e con esse il cattolicesimo di sinistra. Quello che all’epoca – fine anni ’90 – non mettevo a fuoco, però, era l’influenza della globalizzazione, la natura del progresso tecnico e gli effetti dell’immigrazione sulle condizioni di vita e la sensazione di sicurezza dei ceti meno abbienti e istruiti . Tutti fenomeni dai quali sarebbe emersa poi la reazione populistica di oggi. Non vedevo bene neppure l’ignavia, i conflitti, e l’inerzia dell’Unione europea. L’Europa disunita non è stata in grado di difendere il modello sociale europeo, e in sostanza ha funzionato come cinghia di trasmissione della globalizzazione, del regime di politica economica internazionale affermatosi dagli anni ’80 in poi”. Oggi pensare di influire su questo trend mondiale “di libera circolazione del capitale e di massiccia esportazione di prodotti a basso prezzo, ma di crescente qualità, nei paesi capitalistici avanzati è un’illusione. E non sarà facile influenzare le decisioni dell’Unione europea, non soltanto dopo le elezioni tedesche. Il grado di fraternità, di solidarietà, di comunanza fra i popoli europei è al di sotto della soglia utile a consentire manovre distributive molto forti, come quelle che la Germania ha fatto per i suoi Länder orientali o quelle che l’Italia ha fatto per il Mezzogiorno”. Dunque, l’unico modo “per partecipare all’Europa è diventare più efficienti, salvaguardando i ceti più minacciati. E’ questa la linea del liberalismo di sinistra, europeista, che sostiene le riforme strutturali per partecipare, in assenza di mutualità e fraternità, allo sviluppo dell’Unione europea nella direzione, già molto difficile, che indica ad esempio Sergio Fabbrini. I partiti della sinistra di governo sono in una situazione difficile ovunque, sono vittime designate dei movimenti populistici”. I quali, naturalmente, prosperano con soluzioni illusorie sulle difficoltà vere e sulle paure dei ceti medio-bassi, di disoccupati, dei precari. Lo spazio che questi movimenti hanno non è rappresentativo “solo della crisi del Pd ma di tutte le sinistre di governo in Europa. Non è facile uscirne e non bisogna sottovalutare queste difficoltà”.

 

In questi dieci anni dunque sono successe molte cose, in Italia e in Europa. E’ nato il fenomeno Emmanuel Macron e Renzi ha scoperto di essere un Macron mancato. Il segretario del Pd, prendendo in mano il partito, ha però avuto un problema che Macron non ha avuto, perché le riforme costituzionali golliste l’avevano già risolto: una repubblica presidenziale e leggi elettorali fortemente maggioritarie. Renzi ha dovuto-voluto affrontare insieme sia il problema della riforma costituzionale, sia quello sia quello della riforma elettorale, e questo nel mezzo di una rivoluzione nel partito. “Nell’orientarlo verso il liberalismo di sinistra”, dice Salvati, “si è reso conto del mutamento della forma partito e ha dovuto agire di conseguenza. Quasi tutti i partiti europei sono in una fase di trasformazione, fanno parte della democrazia del pubblico, come dice Bernard Manin”. Per questo Renzi ha compiuto due operazioni: “Ha personalizzato il comando del partito, e ha spostato l’intero partito al centro nella speranza di conquistarne una parte significativa. Dopo il trionfo alle Europee poteva sembrare una cosa possibile, ma la vittoria del 2014 ha preoccupato sia i nemici interni al Pd sia lo stesso Berlusconi. “Avevo pensato che Berlusconi si fosse messo contro Renzi semplicemente per la scelta di Mattarella come presidente della Repubblica. Ma un articolo molto interessante di Claudio Petruccioli sull’ultimo numero di Mondoperaio, mi ha fatto riflettere su un punto. Credo che i nemici interni ed esterni temessero il successo di Renzi e che potesse diventare, con una vittoria al referendum costituzionale, un dominus di lungo periodo. Per questo gli si sono messi contro, a partire da Berlusconi”. La riforma costituzionale di Renzi “era molto più blanda di quella che aveva pensato Berlusconi, che prevedeva il mutamento della stessa forma di governo attraverso la sfiducia costruttiva. Tutte cose utilissime peraltro, che anche Renzi approverebbe”. Con la caduta della riforma costituzionale “era molto probabile che sarebbe caduta anche quella elettorale. Soltanto noi in Italia pensiamo che la Corte costituzionale sia un organo asettico che giudica sulla base pure considerazioni giuridiche, mentre invece è comprensibilmente sensibile a considerazione politiche, come lo è la Suprema Corte americana, dove nessuno si sogna di pensare che sia solo un organo tecnico-giuridico. Saltati questi due cardini del disegno di Renzi, la riforma costituzionale e quella elettorale, siamo precipitati nel sistema proporzionale nel quale siamo adesso”.

 

Non ho messo a fuoco l'influenza
della globalizzazione
e gli effetti dell'immigrazione.
Tutti fenomeni
da cui è nata
la reazione populistica

Il quadro è dunque un altro rispetto non solo a dieci anni fa ma anche a pochi mesi fa. E la vocazione maggioritaria del Pd, professore? Che fine ha fatto? “Come dice il suo direttore, la vocazione maggioritaria sta diventando un’idea romantica, nelle condizioni odierne. Ma in politica ci sono dei cicli ed è possibile che ritorni. Può darsi che in futuro, senza innesti maggioritari robusti come quelli che Renzi aveva cercato di attuare, non sia più possibile attuare alcuna politica nazionale che affronti seriamente le riforme strutturali di cui abbiamo bisogno. La riforma del lavoro è largamente fatta, quella della pubblica amministrazioni abbozzata e di tante riforme utili Renzi ha fatto una rassegna orgogliosa nel suo libro”. Tenuto conto del nuovo contesto, secondo lei è corretto che il segretario del Pd sia ancora, automaticamente, il candidato premier, oppure bisogna scindere i due ruoli? “In un sistema maggioritario, è ovvio che il segretario di un partito è anche il candidato premier. In un sistema proporzionale invece non è automatico e diventa una scelta. Vedremo che cosa deciderà Renzi. Nonostante lo statuto, può benissimo designare un altro candidato, se il Presidente della Repubblica glielo chiede e questo è più utile a formare la coalizione la migliore possibile, o la meno peggiore. Io non ci vedo niente che tradisca lo spirito del Pd: a essere cambiate sono le circostanze”. Nonostante i molti mutamenti avvenuti in questi anni, c’è però una costante. “Da quando viviamo in una situazione di crisi, cioè dagli anni Novanta in poi, sono sempre stati sconfitti i partiti che in precedenza erano al governo. Forza Italia in campagna elettorale dirà che al governo ci sono sempre stati i democratici, con Monti, con Letta, con Renzi, con Gentiloni”.

 

Ora, il governo Monti era sostenuto anche da Forza Italia, ma questo per l’elettorato è indifferente, conta la sensazione, dice Salvati. Questa percezione – che al governo negli ultimi cinque anni ci sia stata soprattutto la sinistra – non è secondaria perché “in realtà il bipolarismo è, seppure in forme strane, ancora molto radicato nella gente e io ho l’impressione che Berlusconi abbia alle prossime elezioni delle buone chance. Certo, bisogna vedere che alleanza farà. Però ho l’impressione che per la gente sia esistito un lungo dominio della sinistra, cui tendono a imputare le loro difficoltà”. Per il Pd dunque la sfida è difficile, ragiona Salvati, “anche se Renzi si mantenesse fedele agli ideali descritti nel suo libro, quelli del liberalismo europeista di sinistra”. Ci sono alcune cose da aggiustare, alcune battaglie da intraprendere. Come quelle che il direttore del Foglio ha indicato nel suo editoriale lunedì scorso. La difesa dell’europeismo (“Senza se e senza ma”, dice Salvati, che aderisce all’appello per inserire l’Unione Europea nei simboli di partito) e l’aggiustamento dello squilibrio tra potere giudiziario e potere politico. Su quest’ultimo punto Salvati dice che il “Pd deve interiorizzare di più questa battaglia, visto che finora non è stato sempre così. Mi sembrava che Orlando fosse sulla buona strada. Il circuito mediatico-giudiziario è un cancro della nostra democrazia, ed è intollerabile, per un sistema democratico, che la politica non sia in grado interrompere o frenarlo. Mi trovo spesso d’accordo con le cose che dice Mauro Calise su questo punto”.

 

Il bipolarismo, seppur
in forme strane, è ancora molto radicato nella gente e penso
che Berlusconi abbia delle buone chance
di vittoria

Questi temi devono essere presenti nel programma del Pd, “il problema è che essi non sono così popolari come si crede, perché è soprattutto il ceto politico la vittima di questo circuito. Non è popolare nel M5s e solo adesso comincia a esserlo nella Lega perché è stata un po’ bastonata. L’immagine prevalente che circola è quella della vendetta, della ghigliottina in mano al popolo e ai giudici”. Per evitare questo squilibrio, l’amministrazione pubblica dovrebbe dotarsi di “anticorpi interni per reprimere i fenomeni corruttivi attraverso azioni disciplinari più forti, che prescindano dall’esito giudiziario. A me stupisce sempre un dato che riguarda la Germania. E’ un paese molto meno corrotto del nostro, ma i white collars in carcere per corruzione sono 150, da noi 19, se ricordo bene. La corruzione va stroncata, ma non attraverso il circuito mediatico-giudiziario”. Insieme a questi paletti, però, Salvati dice che il Pd “quando arriverà alle elezioni dovrà insistere molto sul tema della competenza e dell’esperienza, il partito ha ministri bravi e stimati, a partire da Minniti. Lo stesso Gentiloni piace per il suo stile, così come piacciono Delrio e Padoan. Non dimenticherei Maria Elena Boschi, è una persona che studia e, sarà che sono un professore, ma mi piacciono molto le persone che studiano. Il Pd deve dare l’idea di disporre di una classe dirigente seria e competente. Un’idea che può essere rafforzata se prima delle elezioni propone due-tre ministri tecnici stimati e competenti. Penso per esempio a Sabino Cassese, che ha una grande energia nonostante l’età ed è di una competenza imbattibile nel suo campo. L’importante è dare l’idea che il Giglio Magico non c’è più”. Quanto a Renzi, può permettersi di essere se stesso. “Criticarlo per la personalizzazione non coglie il punto. Renzi ha eliminato una classe dirigente, cui ha soffiato il partito. Non gliel’avrebbero perdonata neanche se fosse stato gentilissimo. Ci sono persone di grande valore, penso al mio amico Valerio Onida, seriamente convinte che l’Italia non possa essere governata se viene soggetta a sterzate così brusche. Sono proporzionalisti, e pensano con nostalgia alla Repubblica dei partiti di Pietro Scoppola, ma non si rendono conto che non esistono più i grandi partiti di una volta. Il mondo dei grandi partiti, con elettorati fedeli, è finito. L’ultimo partito, come dicono Fasano e Natale, è forse il Pd, che ha ancora parecchie persone che vanno a discutere nei circoli, ma è una fase che forse è in esaurimento”. Professore, ultima domanda mentre giungono notizie dal fronte Mdp (Filippo Bubbico si è dimesso da viceministro e Roberto Speranza dice di non sentirsi “più politicamente dentro questa maggioranza”): la scissione era inevitabile? “Io ho l’impressione che, alla luce dell’attacco iniziale condotto da Renzi con la rottamazione e alla luce dello spostamento dei confini della ditta, fosse inevitabile. Se Renzi fosse stato carino e gentile sarebbe stato meglio ma non avrebbe cambiato nulla. Renzi ha spazzato via gli ultimi baluardi del vecchio partito comunista, mettendo in mano il Pd a un ceto politico in cui sembrano prevalenti ex democristiani, ex scout, ex presidenti Fuci… Una cosa intollerabile. Però ai ‘nativi democratici’ e anche a molti dei vecchi l’innovazione è piaciuta. Lo dimostra il successo di Renzi alle primarie, anche dopo la sconfitta referendaria. Credo che di questo Pisapia e Mdp debbano tener conto.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.