Beppe Grillo e Luigi Di Maio (foto LaPresse)

La democrazia diretta di Rousseau cara al M5s è tutto meno che democratica

Giuseppe Bedeschi

Cesarismo e deriva carismatica. Note per Beppe Grillo e i Masanielli nostrani

È ritornata in auge, nel nostro dibattito politico, la democrazia diretta, praticata, si dice, dal movimento pentastellato, grazie alle risorse della “rete”, che permette di consultare un numero praticamente illimitato di persone. E, con la democrazia diretta, è ritornato di attualità il suo massimo teorico, Jean-Jacques Rousseau, del quale viene ripresa una celebre sentenza contenuta nel Contratto sociale: “Affermo dunque che la sovranità, non essendo che l’esercizio della volontà generale, non può mai essere alienata, e che il corpo sovrano, il quale è soltanto un ente collettivo, non può essere rappresentato che da se stesso: si può trasmettere il potere ma non la volontà”.

 

 

Viene qui espresso il completo rifiuto della democrazia rappresentativa o delegata (attraverso libere elezioni e un Parlamento), teorizzata dai grandi pensatori liberali, a partire da Locke. Il popolo deve partecipare, in prima persona, alla vita politica; il singolo deve prendere parte all’assemblea di tutti i cittadini (come avveniva nelle antiche poleis), dibattervi i problemi dello stato, e deliberare sempre in vista degli interessi della comunità. “La sovranità – dice Rousseau – non può essere rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata, essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è quella stessa, o è un’altra; non c’è via di mezzo”. Se il popolo si spoglia della sovranità e la attribuisce a dei rappresentanti, esso la conferisce a una corporazione di politicanti, i quali faranno le leggi in primo luogo a proprio vantaggio. È dunque pura illusione, secondo Rousseau, ritenere che un’assemblea rappresentativa interpreterà la volontà del popolo: ciò non potrà avvenire, sia perché quell’assemblea sarà inevitabilmente separata dal popolo stesso, sia perché essa verrà a costituire un corpo con propri interessi, proprie propensioni, proprie mire, ecc. “Il popolo inglese – dice il ginevrino – crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante le elezioni dei membri del parlamento; appena questi sono eletti, esso diventa schiavo, non è più niente”.

 

Tralasciamo pure il fatto (enorme) che nelle antiche poleis i cittadini potevano far fronte ai molti obblighi imposti dall’esercizio dei diritti politici solo grazie al lavoro degli schiavi (come per altro Rousseau riconosce nel Contratto sociale – III, 15 – invalidando così la propria teoria per il mondo moderno), e consideriamo piuttosto le contraddizioni nelle quali il ginevrino si avvolge. Egli distingue rigorosamente, come è ben noto, fra “volontà generale” (che tende al bene comune, cioè al bene della comunità presa nel suo complesso) e “volontà di tutti” (che è la somma delle volontà particolari dei sudditi, ciascuno dei quali tende a perseguire il proprio interesse personale). E può ben accadere che la “volontà di tutti” prevalga sulla “volontà generale”: allora la virtù etico-politica di un popolo è gravemente compromessa, e la repubblica può dissolversi. Nell’importante saggio sull’Economia politica (1754) Rousseau prende in considerazione un caso esemplare. Può accadere, egli dice, che il popolo venga “sedotto da interessi particolari; che uomini abili, valendosi della loro eloquenza”, sostituiscano i loro interessi a quelli del popolo. In questa situazione infausta chi indicherà di nuovo al popolo la “volontà generale”, chi lo riporterà sulla retta via? Bisognerà, a tal fine, riunire tutta la nazione? “No, – risponde Rousseau – non sarà necessario, tanto più che non è sicuro che la sua decisione [cioè la decisione della nazione] sarebbe l’espressione della volontà generale (…)”. D’altro canto, spiega il ginevrino, “se il governo è bene orientato, non è neppure necessario [riunire tutta la nazione]: giacché i capi ben sanno che la volontà generale è sempre in favore del partito più vantaggioso per l’interesse pubblico, cioè il più giusto, sicché basta essere giusti per avere la certezza di seguire la volontà generale”. Si noti bene: “I capi ben sanno”, ecc. I capi! Qui è evidente che per Rousseau il popolo non è affatto protagonista del processo politico, poiché esso è una massa facilmente ingannabile da “uomini abili”, da demagoghi che gli fanno smarrire la “volontà generale”; la quale potrà essere restituita alla massa popolare solo da “un governo ben orientato”, da “capi” virtuosi. In questo testo, dunque, non solo la “volontà generale” è nettamente separata dalla volontà empiricamente esistente nel popolo, ma essa, in quanto volontà superiore e per così dire sublime, deve essere inculcata nel popolo stesso da capi virtuosi, che rispondono soltanto a se medesimi e alla propria alta missione: è evidente che qui viene espressa dal ginevrino una concezione non democratica, bensì cesaristico-carismatica del rapporto fra popolo e capi. Dunque, la democrazia diretta rousseauiana si rovescia nel suo esatto contrario.

 

 

Sembra questa una nemesi che affligge tutti i seguaci della democrazia diretta. Si pensi (si parva licet componere magnis) ai nostri capi pentastellati, e in particolare al suo capo supremo: un Masaniello che proclama l’intangibilità della democrazia diretta via web, ma poi, se il risultato della consultazione non gli piace, disconosce la candidata a sindaco di una grande città (anche se indicata dalla maggioranza), e sceglie un altro di suo gusto. E così via, di arbitrio in arbitrio, di protervia in protervia, al di fuori e al di là di ogni controllo democratico.