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Le parole che gli europeisti non usano per fare a pezzi la nuova retorica sfascista

Claudio Cerasa

L’Unione europea non è la fonte dei nostri problemi ma può essere la soluzione a molti nostri guai. Ma solo a una condizione: i leader anti sovranisti devono mettere a nudo le infinite cialtronerie dell’agenda economica dei neo populisti

Una volta messo da parte il complicato fine settimana romano, con tutta la fumosa e poco incisiva celebrazione dei sessant’anni dei Trattati di Roma, occorrerà trovare un modo per fermarsi un attimo, smetterla di pensare alle celebrazioni degli ultimi sessant’anni dell’Europa e provare finalmente a immaginare i prossimi sessant’anni del nostro Continente. Non si tratta solo di un esercizio di stile. E’ un tratto cruciale – parolona – di questa fase storica dell’Unione europea: i populisti sono meno forti di quanto appaiano, ma il modello di Europa sognato dalle forze anti sistema, seppure innervato esclusivamente sulla politica del no, è chiaro, forte, incisivo e a tratti persino coinvolgente. Il problema è tutto qui: a parte resistere, resistere, resistere, cosa possono fare concretamente, per esistere, i leader politici che non si riconoscono nella retorica sfascista dei movimenti populisti? Le strade da seguire sono molte, ma quella più importante da imboccare l’ha accennata Emmanuel Macron in un’intervista rilasciata venerdì scorso a Repubblica e a Libération: “Non si può essere timidamente europeisti, altrimenti abbiamo già perso”. Già: ma cosa significa oggi essere europeisti? Molti leader politici tendono a declinare il proprio europeismo in un modo sciatto e a volte paraculo, giocando con le negazioni. A parole dicono di essere “non sovranisti”, “non nazionalisti”, “non populisti”, salvo poi giocare a fare gli anti europeisti non appena possibile.

 

I paesi dell’Europa crescono quando intensificano la produttività del lavoro, sfruttano le leve dell’export, scommettono sulla globalizzazione. I movimenti anti sistema scommettono su un modello contrario e dicono che la produttività non è un problema, che l’apertura dei mercati è il male della nostra epoca, che il protezionismo è il futuro. Chi li smonta?

Ma enunciare il proprio europeismo senza andare alla radice dei problemi, e delle contraddizioni messe in campo dalle forze anti sistema, è un esercizio sterile e forse persino inutile e controproducente. Dunque, da dove cominciare? Forse dal più semplice dei punti: l’economia.

 

I dati degli ultimi mesi ci dicono, senza grande possibilità di fraintendimento, che l’Europa funziona bene, anche se potrebbe funzionare meglio, che la globalizzazione funziona bene, anche se potrebbe funzionare meglio, che le politiche messe in campo dalla Bce funzionano bene, e forse non potrebbero funzionare meglio, e che i paesi che crescono di più, in Europa e non solo, sono quelli che riescono a fare tre cose in particolare: intensificare la produttività del lavoro, sfruttare le leve dell’export, scommettere sulla globalizzazione. Un paese che non cresce come potrebbe è un paese che non ha scommesso come dovrebbe sulla produttività e su questo tema uno studio ben fatto della Voce.Info ha ricordato la scorsa settimana un dato importante: se le piccole e medie imprese italiane vogliono competere con le piccole e medie imprese europee devono rendersi conto che una delle più grandi debolezze italiane è “l’andamento molto deludente della produttività del lavoro, che dal 2007 al 2014 si è ridotta di 7,7 punti percentuali, nonostante il costo unitario del lavoro in termini reali è passato da circa 38 mila euro nel 2007 a 37 mila nel 2014”. Senza produttività, com’è evidente, non si cresce e non può essere considerato solo un dettaglio il fatto che nell’agenda dei populisti la produttività non esiste ed è stata sostituita dal suo contrario, nel simbolo dell’ozio dei popoli: il reddito di cittadinanza.

 

Secondo punto, l’export. Nei primi mesi dell’anno – come riconosciuto anche dall’Economist in un breve commento online pubblicato mercoledì scorso – l’export italiano ha registrato dei numeri da record, più 13,3 per cento rispetto all’anno precedente, con un più 20 per cento toccato dalle esportazioni extra Unione europea. Dunque sono le esportazioni oggi a trainare le economie. E qual è il più grande nemico dell’export? La vittoria del protezionismo, l’affermazione del partito della chiusura, la legittimazione del sovranismo, la contrazione del commercio mondiale. Dice bene Erik Nielsen, capo economista di Unicredit: “Se la diffusione del populismo incoraggerà un’ampia ritirata nel protezionismo la festa dell’export sarà di breve durata”.

 

E arriviamo così al terzo punto: scommettere non solo sull’evoluzione del modello economico europeo (l’Europa cresce più degli Stati Uniti e dal 2013 al 2017 l’Italia ha risparmiato 19,6 miliardi di interessi sul debito pubblico grazie alle politica della Bce) ma soprattutto sulla globalizzazione e sull’apertura dei mercati. In un bellissimo discorso tenuto a Trento nell’occasione del conferimento del premio De Gasperi, Mario Draghi, vera diga contro il populismo europeo, ha ricordato che “la sovranità nazionale rimane per molti aspetti l’elemento fondamentale del governo di un paese”, ma ha aggiunto che “per ciò che riguarda le sfide che trascendono i suoi confini l’unico modo di preservare la sovranità nazionale, cioè di far sentire la voce dei propri cittadini nel contesto mondiale, è per noi europei condividerlo nell’Unione europea che ha funzionato da moltiplicatore della nostra forza nazionale”. L’Unione europea non è la fonte dei nostri problemi, come molti politici tendono a far credere, ma può essere ancora la soluzione a molti nostri problemi e la ragione per cui si fa fatica a spiegare che il problema dell’Europa non è che non funziona ma che potrebbe funzionare meglio è legata al successo di una grande e assoluta post verità che riguarda il capitalismo mondiale: il presunto trionfo delle diseguaglianze. Anni di retorica populista hanno favorito la proliferazione di una balla colossale che suona più o meno così: il capitalismo produce diseguaglianze, la globalizzazione è nemica della società uguale, l’Europa del rigore è il nuovo simbolo del capitalismo, l’Europa del rigore è il simbolo delle diseguaglianze e per questo deve essere abbattuta. Provare a spiegare che il rigore dell’Europa altro non è che il tentativo di imporre a paesi pelandroni riforme che per troppi anni non sono state fatte è un’esperienza proibitiva che sfida il pensiero unico neo protezionista e senza qualcuno che contrapponga i fatti alla retorica della post verità nazionalista il rischio è che alla fine la retorica prevalga sui fatti. Quando i fatti ci dicono invece che il progresso, il capitalismo e la modernità non sono il problema del mondo in via di sviluppo ma la soluzione a molti dei suoi mali e che è la società aperta e ben regolata l’unico antidoto alla diseguaglianza, la quale a sua volta – lo dice il premio Nobel Angus Deaton – “è un’ancella dello sviluppo”. Noah Smith, bravo editorialista di Bloomberg View, venerdì scorso ha scritto un articolo interessante contro la retorica declinista e contro le balle sulla globalizzazione portatrice di diseguaglianza e applicando lo schema adottato da un altro premio Nobel – Simon Kuznets – ha attaccato i nuovi profeti di sventura: dimostrando che la diseguaglianza esiste ma che è solo una fase fisiologica all’interno dello sviluppo di una società, e a poco a poco, questa, è destinata ad assorbirsi, una volta raggiunta la piena maturazione del sistema economico. Quella maturazione – dice Smith – oggi si sta manifestando: “The overall lesson is not to fear capitalist industrialization and growth; inequality may go up for a while as a country starts to climb out of poverty, but that trend won’t last forever”. Lo dice Smith e con parole più chiare lo ha detto qualche tempo fa Benedetto XVI, in un bellissimo passaggio dell’enciclica Caritas in veritate: “Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani”.

 

Proviamo a sintetizzare il tutto in parole più semplici: i paesi dell’Europa (e non solo) crescono quando intensificano la produttività del lavoro, sfruttano le leve dell’export, scommettono sulla globalizzazione. I movimenti anti sistema scommettono su un modello contrario e dicono esplicitamente che la produttività non è un problema, che l’apertura dei mercati è il male della nostra epoca, che il protezionismo è il futuro. Una volta messa da parte la fumosa e poco incisiva celebrazione dei sessant’anni dei Trattati di Roma, per costruire i prossimi sessant’anni del nostro Continente in fondo basterebbe partire da qui: dal cialtronismo anti sviluppista dell’agenda economica dei nuovi populisti.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.