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E ora schiacciare la bestiolina demagogico-populista

Contro l’illusionismo dei Trump, Le Pen e sette grilline serve con urgenza un vero patriottismo europeo

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Il Pd riformista, socialista europeo e liberale si deve reinventare. Sembra questo il compito di chi resta e non accetta il ricatto della vecchia guardia alleata con i marpioni e gli opportunisti di sempre. E’ il compito del segretario dimissionario che va a congresso, primarie e elezioni politiche, ma se ci pensino su senza automatismi d’apparato e di corrente, dovrebbe essere anche il compito dei Franceschini e degli Orlando, che non devono né fare i furbi né tenere lo strascico nuziale del boy scout fatale al quale alla fine la reinvenzione verrebbe delegata per intero, con rischi per lui e per loro e per quel che Pd che permane al di qua della linea sonora di Bandiera Rossa e altre bellurie veterobolsceviche. E’ finito il sentimentalismo tifoso dell’unità, si sono esaurite tutte quelle chiacchiere vischiose e inautentiche sui valori nelle quali si è impelagata la Repubblica, che vuole disperatamente vendere copie inutili a coscienze frementi di dolori inutili. La scissione dovrebbe essere considerata un fatto, non uno “scontro di potere” (espressione singolarmente stupida trattandosi di lotta politica) né, mi spiace per Walter Veltroni e il suo sentimentalismo inestirpabile, un rancoroso ritorno al passato invece che un altro grottesco “domani che canta”.

 

Un fatto, per dirla con Giacomo Matteotti, semplice semplice: i riformisti con i riformisti, i postcomunisti con i postcomunisti. Così come a destra Berlusconi dovrebbe sbrigarsi a dire alto e forte: i riformatori liberali e popolari con i loro simili, i mozzorecchi con i mozzorecchi. Nella modestia del mio piccolo impegno di cazzone che scrive su un bel giornale e passeggia a Belleville come Malaussène, l’eroe multiculti di Daniel Pennac, ecco la mia linea, che non è una linea ma un insieme di ideuzze obbligate. Il declino c’è e non c’è. I francesi lo sentono molto perché vengono non dai tre anni di Renzi e dei riformisti che hanno fatto un bel po’ di riforme e hanno subito l’incidente dell’accozzaglia, ma da cinque anni di naufragio hollandista; eppoi si sa, abitano il paese della grandeur, non possono accettare di non stare tra i primi nella classifica della crescita mentre il debito pubblico va verso il 100 per cento e il pieno impiego parla americano, inglese e tedesco, non spiccica una parola di francese.

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Il malessere sociale c’è, e una tendenza neonazionalista e identitaria nel senso peggiore c’è, ed è normale visto che una parte di mondo cerca di uscire dalla miseria e un’altra parte (la nostra) risente delle conseguenze di una obesità di quelle pericolose, di quelle che inducono a pigrizia, scarsa produttività, increscioso piagnisteo (non è il mio caso, sia chiaro). Il malessere però c’è e non c’è, anche lui. Come in Grecia quando volevano cancellarsi i debiti unilateralmente e farne altri, via referendum e bombe molotov, anche in Francia si assiste a uno strano fenomeno: in molti fanno la riverenza a Mme Le Pen, ma quanto a uscire dall’euro, che è il suo programma e anche la conseguenza di una sua non impossibile elezione il prossimo aprile-maggio, qui sono tutti molto prudenti. Magari lo vogliono come scudo per proteggere il debito, che è la ragione sbagliata per volerlo, ma lo vogliono bene in carne, l’euro. Suvvia, noi che scriviamo sui giornali abbiamo il dovere di non credere a quello che c’è scritto nei giornali (ooops!).

 

Quello che invece c’è è l’illusionismo di Trump a Washington, uno che a forza di balle demagogiche ha convinto centomila elettori del Midwest rugginoso e deindustrializzato a dargli la palma della vittoria nel collegio elettorale, mentre tre milioni in più di americani votavano per la poco amata erede della dinastia Clinton; uno che con la sua corte di consiglieri evoliani (Julius Evola era a suo modo un maestro della tradizione, questi sono allievi incompetenti) scambia la Svezia per il Pakistan, e davvero pensa e dice che a Stoccolma venerdì ci sono stati ottanta morti in un attentato, e questa è solo la più divertente e macabra delle sue mille castronerie del primo mese in esercizio. C’è poi il fatto che la Gran Bretagna prova la navigazione d’alto mare, e bisogna venire a patti con un’isola che la Manica divide da sempre dall’Europa, ma meno di quanto non si pensi. E c’è Putin, un bravo ragazzo di buona scuola kagebista, uno che è maturato nel tentativo di restituire dignità e senso della nazione ai russi travolti da settant’anni di comunismo ateo e materialista (oh mio Dio!), uno che il realismo di noi cinici lo vorrebbe comprendere anche nel suo eticismo ortodosso-slavonico. Ma ha il vizietto. Il vizietto espansionista.

 

Non resta che il patriottismo europeo. Ne ha dato una buona definizione, in una intervista lucida al Figaro di sabato scorso, Nicolas Baverez, un economista che i lettori del Foglio hanno imparato a conoscere: con l’eventuale elezione di Marine Le Pen si produrrebbe “una tragedia per l’Europa, che assisterebbe all’esplosione di una costruzione storica senza precedenti nella storia umana: nazioni che si uniscono intorno alla libertà politica, all’economia di mercato e alla solidarietà, e non alla dominazione imperiale o all’occupazione militare”. L’Europa l’aveva fatta un generale romano famoso, Cesare il protoKaiser, a suo modo; poi barbari piuttosto agitati; poi imperatori e papi nella cristianità, a loro modo; poi Napoleone e i nazionalismi più o meno imperiali, a loro modo; infine ci fu il tentativo di Hitler, diciamo a suo modo.

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Ecco, patriottismo europeo vuol dire prima di tutto riscoprire il rimosso, il fatto che al di là di burocrazie e minuzie e errori legati alla gestione della sovranazionalità intergovernativa, al di là di gravami sociali ed economici derivati dal peso sulle classi medie europee del riequilibrio imposto da globalizzazione e digitalizzazione dell’economia, da sessant’anni nell’Europa uscita dai fascismi e dai nazismi si costruisce un modello di democrazia e di integrazione senza precedenti e irrimpiazzabile se non a costi tragici. Giù le mani da questa Europa della libertà e della solidarietà, che è erede del secolo americano (sono venuti loro a salvarci due volte da noi stessi, imbambolati da demagoghi con seguito di massa), che è erede e promotrice del meglio del vecchio lavoro umanista della cultura e della politica occidentali. Non fosse questo l’articolo uno del congresso del Pd, delle primarie e della campagna elettorale per schiacciare la bestiolina demagogico-populista cosiddetta, con un risveglio di orgoglio politico e di realismo pratico-morale, con un programma di riforme capace di creare ricchezza lavoro produttivo e correzione delle ineguaglianze contro il mito dell’eguaglianza assoluta, a che servirebbe riunirsi discutere e chiedere passione e voti?

 

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Un alleato americano fattosi insidioso e mattocchio, fuori controllo. Una Russia prepotente e impicciona. Un’orda di barbariche paure sociali alimentate dal carnaio mediorientale, dall’islam politico, da una immigrazione incontrollata, dalla concorrenza dei paesi extraeuropei ormai ipercompetitivi e dal terrorismo dispiegato: ci vuol altro per tornare a considerare l’Europa non il disastro di Bruxelles, non un centro finanziario poco democratico, sempre più percepito con oscure venature antisemite come una lobby di élite lontane (fuori dall’euro e gli ebrei si tolgano la kippa, dice Madame), ma il baluardo dell’unico mondo in cui ci piace vivere? Poi si può innovare e cambiare e sorprendere anche su nuovi fronti. Pare che Bill Gates chieda una tassa sui robot, guarda tu, e Elon Musk, il riccone che ci vuole portare su Marte, vuole anche lui il reddito garantito per tutti. Ci sono anche riforme meno glamour e forse più sensate. Basta che non ci limitiamo alla lagna sui vitalizi, basta che la sinistra di governo, e Berlusconi per la sua parte, facciano la loro onorevole competizione, le loro alleanze anche con gli scissionisti di ogni risma e tempra, ma che la piantino di farsi subornare dai polls e si guardino dall’inseguire i successi presunti di quei formidabili amministratori della cosa pubblica e competenti uomini e donne di stato che sono i seguaci della setta Casaleggio Associati. G

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