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La normalità italiana delle aziende in politica

Mediaset e Forza Italia hanno intrecciato identità e dati in quel modo anomalo ma comprensibile che la storia degli ultimi venticinque anni ha reso possibile

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Fa sensazione Berlusconi che dice al governo: siamo a disposizione. C’è stato il patto del Nazareno della politica e ora, fallito il patto e caduto Renzi, si profila il patto del Nazareno dell’azienda. Berlusconi è il crocevia naturale dei due patti in quanto proprietario dell’azienda e leader del partito che l’azienda originò. Mediaset infatti si difende da una scalata ostile e sostiene che il gruppo Vivendi ha violato regole essenziali di funzionamento del mercato. Difende l’italianità del gruppo privato di intrattenimento televisivo e informazione. Spera che autorità e poteri pubblici le diano una mano ad arginare la scalata. Fin dove arrivino le regole, fin dove la libertà di mercato, è sempre questione controversa. Che cosa significhi l’italianità, in casi del genere, non si sa troppo bene, visto che in settori strategici, e anche strategico è un aggettivo un po’ mal definito, equivoco, l’Italia ha lasciato il controllo a capitali non italiani senza battere ciglio o quasi. Fa sensazione anche il doppio ruolo del proprietario di impresa e leader politico, e l’agilità acrobatica con cui il titolare del ruolo passa da una incarnazione all’altra. Per molti anni quello del conflitto di interessi è stato il canale di scolo, spesso intorbidito dallo strumentalismo politico e propagandistico, della protesta antiberlusconiana. E questo è il quadro.

Alcuni di coloro che hanno sempre battuto sul conflitto di interessi, considerandolo una anomalia eccezionale e intollerabile, ora pensano che va considerato il tema del pluralismo (antitrust) in relazione al fatto che il gruppo Bolloré ha il controllo di Telecom. E anche, come ha detto il senatore del Pd Massimo Mucchetti, veterano della lotta contro il conflitto di interessi, in relazione all’interesse nazionale: se l’Italia litiga con la Francia o la Germania in Europa, avere la parte privata essenziale del sistema di informazioni in mani straniere crea una situazione ambigua, prossima alla colonizzazione politico-culturale. Mah. Comunque, la legge Gasparri, qualche anno fa messa nel cattiverio delle leggi ad personam, ora torna buona, forse. Altri che hanno sempre diffidato del facilismo censorio sul conflitto di interessi, e che ne hanno sottolineato la normalità sostanziale in regime capitalistico, finanziario, globalizzato (fra questi molti di noi che ne hanno scritto qui) stavolta si domandano se i meccanismi di mercato aperto, posta la trasparenza delle procedure, non siano il modo migliore per dirimere i conflitti emulativi e competitivi tra capitali. Non la regola che chiude il mercato ma il mercato che è la regola. E molti, a prescindere dalle disquisizioni metodologiche, si domandano quale sia alla fine davvero l’interesse della famiglia proprietaria di Mediaset e della comunità di lavoro e sapere che le gira intorno: resistere a ogni costo, negoziare, incassare una supervalutazione del bene cedendone il controllo a un gruppo che diventa polo di sviluppo sovranazionale. Mah. Chissà.

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Resta il fatto che quel che fa sensazione altrove qui da noi fa meno impressione. Berlusconi a disposizione del governo, come enfaticamente detto da un patron mai così baldanzoso dopo vicissitudini pubbliche e personali molto dure, è un modo come al solito outspoken, irrispettoso della lingua di legno prevalente, e ipocrita, di riaffermare una cosa notoria per tutti gli osservatori non pregiudicati da faziosità e moralismo bifido. Quando ha difeso il carattere commerciale della sua azienda di comunicazione (informazione, pubblicità, intrattenimento) impedendo che la tv facesse lotta politica senza riflettere il carattere ecumenico, come dice il Cav., del suo mercato di clienti, fino a prendere il Michele Santoro d’una volta tra i suoi beniamini in piena bagarre, Berlusconi faceva politica televisiva in modo realistico nel mercato. Quando è entrato in politica direttamente, ammettendo in numerosi pronunciamenti pubblici di averlo fatto anche per difendere la libertà d’impresa sua e degli altri imprenditori da rischi, diciamo così, di sistema, Berlusconi fece politica televisiva e non televisiva insieme con risultati di interesse generale oltre che di gruppo. Gli Agnelli, per dire, sono stati il modello alternativo. Hanno fatto politica d’influenza, e ragguardevole, a ogni stadio della loro storia di quattro generazioni, dal fondatore della dinastia a John Elkann, sotto il cui regno alfine, con la supervisione visionaria di un esecutivo come Sergio Marchionne e con il lascito di competenza dei Grand Commis Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, l’azienda è stata deitalianizzata, finanziarizzata (Exor) e internazionalizzata senza troppi problemi, con scelte d’investimento sagaci che l’hanno tenuta legata al sangue di famiglia. Prima di John valeva che quel che è bene per la Fiat è bene per l’Italia, e il rapporto tra impresa e stato fu molto concreto in ogni senso.

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Ogni azienda fa politica. Il rapporto con il pubblico è sempre dietro l’angolo, anche quando non si veda troppo. Pensate all’America di Obama, con il salvataggio di banche e automobili nel 2008-2009, o a quella di Trump, dove si fa ormai all’italiana, contrattando ad hoc patti e protezioni sociali fuori mercato in ragione della politica protezionista o patriottica o narcisista del presidente eletto. L’azienda di Berlusconi e il partito di Berlusconi hanno intrecciato identità e dati in quel modo anomalo ma comprensibile che la storia degli ultimi venticinque anni ha reso possibile. Quel che sembra anormale, considerati l’Ego smisurato del Cav. e il tratto naturalmente politico di un’azienda di comunicazione, è un tratto specifico della normalità italiana. E la normalità non fa sensazione. All’opposizione ma anche a disposizione. 

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