L'antipatia, non la post verità, c'entra con la parabola renziana

Andrea Minuz

Ce la possiamo prendere col pil che non sale, col Jobs Act così-così, la deportazione dei maestri e la rottura del Patto del Nazareno. Ma ogni eventuale errore politico è nulla di fronte all’antipatia

"Il vero, grande merito di questa fiction è che non ci sono i toscani”. Così Stanis La Rochelle in una memorabile gag di “Boris”, la serie andata in onda su Fox tra il 2007 e il 2010, l’anno in cui Renzi annunciò la “rottamazione senza incentivi”, l’anno della prima edizione della Leopolda. Oggi risuona come una profezia nefasta. Una sotterranea, diffusa, inconfessabile “ragione del No”. Tanto che persino Galli della Loggia individua nel “tratto marcato di consorteria toscana” uno dei motivi della sconfitta di Renzi, leader “divenuto ormai insopportabilmente antipatico”. Ormai? Semmai bisognerà fare i conti con quello che è stato sin da subito uno degli insormontabili problemi del renzismo. Perché ce la possiamo prendere col pil che non sale, col Jobs Act così-così, la deportazione dei maestri e la rottura del Patto del Nazareno. Ma ogni eventuale errore politico è nulla di fronte all’antipatia.

Antipatia per Renzi, il renzismo, le slide, i tweet e pure la Scuola Holden di Baricco. “La sola cifra del suo discorso è stata quella del sarcasmo”, scrive Galli della Loggia che quasi fa il verso a Stanis di “Boris” quando dice che “con quella ‘c’ aspirata e quell’umorismo da quattro soldi, i toscani hanno devastato questo paese”. Per carità, c’erano da salvare la Costituzione e il Senato, bisognava difendere il Cnel, impedire la deriva autoritaria, d’accordo. Ma il voto di domenica dice che c’è un 41 per cento di riformisti moderati che non ha più un partito e un 59 per cento di italiani che non avrebbe cambiato idea per nessuna ragione al mondo. Oliviero Toscani lo disse temo fa e senza troppi giri di parole: “La riforma sarebbe anche giusta, ma voto No perché Renzi mi è antipatico”. Tié. Salvini ci ha costruito sopra mezza campagna referendaria. “Renzi non lo sopporto mi sta antipatico”, diceva invitato da Daria Bignardi alle “Invasioni barbariche”. “Non riesco a sorridergli, mi dà fastidio vederlo a pelle”, diceva ospite da Geppi Cucciari, qualche mese dopo. Farinetti aveva fiutato l’aria e a un mese dal voto chiese di “tornare a essere simpatici”.

Ospite da Massimo Giletti, Renzi chiese agli italiani di non votare No solo per antipatia. Ma ormai era fatta. Se c’è qualcosa che hanno in comune il voto americano e quello italiano è la diffusa antipatia per Hillary e Renzi. Certo, tutta questa insistenza ossessiva sui boy-scout e Baden-Powell alla fine resterà un po’ inspiegabile (alzi la mano chi ha mai trovato “simpatici” i boy-scout). Perché a differenza del berlusconismo, il renzismo non aveva degli oppositori radicali e martiri dell’indignazione che però in privato ridacchiavano delle barzellette, delle culone inchiavabili, o annuivano di nascosto su “l’Italia è un paese di merda”. Al contrario, Renzi è probabilmente antipatico anche a molti elettori di quel 41 per cento. La sua è una parabola esemplare della nostra politica. Dalle assunzioni a scuola con la scuola che gli vota tutta contro, all’approvazione delle unioni civili di cui improvvisamente non fregava più niente a nessuno fino all’ultima, surreale accusa di “irresponsabilità” per le dimissioni, Renzi ci ricorda che non serviva inventare una parola come “post-verità” per spiegare la prevalenza delle emozioni sui fatti. Per dire la stessa cosa, funziona ancora benissimo anzi meglio il buon vecchio “stare sui coglioni a tutti”.

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