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La seconda vita possibile di Romano Prodi

L’ex premier deve decidere se lasciarsi corteggiare da Renzi e compagni sul referendum. Il posto di padre della svolta, che una volta sembrava destinato paradossalmente al Cav., è libero e occuparlo sarebbe un affare niente male.
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Il bolognese Prodi, si capisce, s’intende bene con Enrico Letta, pisano, via Arel e la memoria del professor Andreatta, maestro di color che sanno nell’ambito dell’ex Ulivo. Ma il giovin signore è a Parigi, è diventato homo sorboniensis, insegna la politica (chi sa fare fa, chi non sa fare insegna: così fu detto). Non male anche l’intesa di Prodi con Bersani, suo ex ministro padano, riformista e anche uomo d’apparato, un tipo spesso, solido. Per uno come Prodi, che ha nelle vene la cultura politica e sociale della Democrazia cristiana d’antan, E. Letta va un po’ sul tecnocratico, ma se non fosse lontano e tutto preso nella didattica,  sarebbe bon à tout faire, è flessibile.  Bersani, postcomunista, non ha praticamente difetti, a parte certe tigne e certi inciampi di manovra politica, tra i quali l’aver annunciato Prodi al Quirinale e il doversi ritrovare lui stesso a casa, con il candidato silurato dai famosi centouno dell’ex Ulivo.

 

Veltroni e D’Alema forse erano meno aleatori, quanto a manovra, ed erano essenziali per comporre la coalizione e per mettere alle corde le smanie di Bertinotti, ma intanto si coniugano più o meno all’imperfetto, ora, da ex parlamentari e signorotti ambiziosi ma solo delle loro imprese e fondazioni culturali. D’Alema poi è tanto amico quanto nemico, nel ricordo dell’ex presidente del Consiglio, ex capo dell’Unione europea, ex capo dell’Ulivo e della strana creatura chiamata Unione. Si sono scambiati molto, i due, Prodi sembrava aver ricevuto di più, ma poi, all’atto pratico, si sono messi delle corna epiche, e D’Alema fece salti mortali per dissellare quel flaccidone di Bologna, per prendere il posto di colui che pretendeva di comandare e sedere a capotavola quando uno dei commensali era appunto lui, D’Alema. Brutto affare. E chissà se i suoi erano anche loro tra i centouno.

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Ora Renzi corteggia Prodi. In modo ostentato, nei comizi, alle feste popolari, e lo cita, e menziona i suoi avversari storici dannandoli, e gli fa la danza del ventre con giovanile ardore. Renzi ha cambiato marcia, si è fatto l’autocritica, non fa più l’eroe solitario che ci mette la faccia, vira sul pedagogico, la discussione nel merito, e cerca convergenze decisive per vincere senza stravincere, concedendo terreno a coloro che cerca di portare sotto la tenda. E il vecchio Prodi deve decidere se lasciarsi corteggiare, e magari fidanzarsi in occasione del referendum. Con dignità, non senza riserve che si prolungherebbero nel caso insino al matrimonio, con senso pratico e poca cerimoniosità. Forse poi sarà il momento di una sorpresina gentile, alla Benigni: sì, va bene, ho tante riserve, lavoro per glorie future unitarie, certe arroganze del giovanotto non mi vanno bene, il riformismo con le scarpe chiodate non è la mia tazza di tè, il giovanilismo non mi piace, la Leopolda è una vecchia stazione di Firenze e io sono proprio di Bologna, ma intanto a dire di no non gliela fo, preferisco dire sì alla fine del bicameralismo, e chiudiamola lì.

 

Se Prodi ci stesse, almeno a uno struscio senza più gravi conseguenze, farebbe qualcosa che gli assomiglia, sarebbe considerato coerente con i presupposti del suo riformismo cattolico e democristiano, con l’idea di una media e umile Italia appenninica che alla fine ci sta a risolvere i problemi, e ci riesce pure, magari contro Milano e contro Roma, che marciano l’una contro l’altra, salvo l’incognita al futuro della nuova stella di Stefano Parisi. Certo non è stagione più di promesse, i posti sono tutti occupati e per lungo tempo, a quanto pare, ma il posto libero di padre della svolta, che una volta paradossalmente sembrava destinato al Cavaliere e domani chissà, bè, quel posto sarebbe proprio il tuorlo dell’uovo per un tipo come Prodi. O mi sbaglio?

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