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Chi sono e da dove vengono i dalemiani per Renzi

David Allegranti
Come Massimo D'Alema negli anni Ottanta, anche l'attuale segretario del Pd ha prima rottamato la vecchia classe dirigente del partito e poi usato le sue energie migliori per costruire la propria. Così.
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Roma. Pesanti tracce – più che tracce, ormai – di egemonia culturale renziana non si trovano solo negli imprenditori che fanno clap clap al segretario del Pd, nelle miss Italia che dicono che il premier è ganzo, negli ex italo-forzuti alla Denis Verdini che s’iscrivono a Forza Renzi. E neanche li nominiamo, i Franceschini, perché lì manca proprio la fatica della conquista, manca quel “centimetro alla volta” da guadagnarsi che Al Pacino chiedeva ai suoi giocatori in “Ogni maledetta domenica”. C’è un posto che sta regalando classe dirigente al renzismo, malgrado il suo fondatore sia – beffardo il destino! – il capo intellettuale e politico dell’opposizione a Renzi dentro il Pd: la Fondazione ItalianiEuropei del Conte Max.


Renzi e D’Alema hanno attraversato varie fasi; c’è stato un periodo in cui D’Alema andava a Firenze nelle case del popolo a far campagna elettorale per l’aspirante sindaco che aveva battuto il suo candidato, Michele Ventura, paragonandolo a quei ciclisti che in volata si lasciano dietro gli avversari. L’altro, quello giovane, sottolineava quanto fosse pregiato, quel pezzo di sinistra, venuto a trovarlo, e lo ringraziava. Poi ci sono stati gli scazzi, le rappacificazioni corredate di caffè a Palazzo Vecchio, le insanabili rotture e, infine, è arrivata l’ora delle folgorazioni. Dalla Fondazione ItalianiEuropei sono arrivati l’attuale ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, ex direttore scientifico, e il deputato Andrea Romano, anche lui ex direttore scientifico, dal 2000 al 2005. Non solo. Un tempo la Fondazione aveva, oltre alla sede centrale di Roma, una sede a Milano e una a Napoli (oggi non compaiono più sul sito ufficiale). La prima era guidata dall’avvocato Carlo Cerami, la seconda da Ivano Russo. Entrambi attratti nell’area di governo renziana. Cerami è un noto avvocato, è stato membro del cda della Fondazione Cariplo, è presidente di Investire Immobiliare Sgr ed è dal maggio 2014 membro del cda di Terna su indicazione del vecchio vertice di Cdp (Bassanini e Gorno Tempini). Indicazione ben accolta a Palazzo Chigi, sotto la regia di Matteo Orfini. “Semmai esistesse un decalogo del buon comizio – ha commentato Cerami dopo l’intervento di Renzi alla Festa de l’Unità di Milano, il 6 settembre scorso – oggi si potrebbe dire che Renzi ha tenuto un comizio perfetto. Valori, orgoglio, ironia, passione, emozione, coraggio, in un mix condito da toni, pause e ritmo da manuale. Non esisterà, per un tempo non breve, un tema di leadership nel centrosinistra. Lo spazio che resta è quello di arricchire, correggere, integrare e stimolare. Altro non v’è. Lo dico pacatamente, serenamente, come usava dire un tempo”. Russo, ex assistente parlamentare di Gianni Pittella e Giorgio Napolitano a Bruxelles, è stato anche direttore di Mezzogiorno Europa, Fondazione creata – un tempo era associazione – da Napolitano e Andrea Geremicca. Con l’arrivo di Renzi al governo, Russo, classe 1978, è diventato consigliere di Graziano Delrio, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla coesione territoriale, prima del trasferimento dell’ex sindaco di Reggio Emilia al ministero dei Trasporti (Russo oggi è consulente nella segreteria tecnica di Delrio).

 

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Tra i suoi amici c’è anche il sindaco di Firenze Dario Nardella, che è originario di Torre del Greco, viene dai Ds e ha sempre vantato buoni rapporti con il mondo dalemiano. Nicola Latorre, senatore, ha addirittura rotto l’amicizia con il Conte Max, di cui è stato collaboratore (con Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino, anche loro oggi “renzusiasti”) ai tempi della presidenza del Consiglio. Latorre era il capo di ReD, la rete più politica di D’Alema, associazione nata dalla filiazione di ItalianiEuropei. Dentro il Palazzo, invece, lavora Roberto Cerreto, classe 1976, capo di gabinetto di Maria Elena Boschi ed ex membro del comitato di redazione di ItalianiEuropei (come la ministra della pubblica amministrazione Marianna Madia). Dentro Volta, il nuovo think tank renziano, anzi, daempoliano, c’è David Miliband, che figura anche nell’advisory board della Fondazione ItalianiEuropei (ed è un clamoroso caso di paraculismo laburista, ammesso che a Miliband freghi qualcosa delle dinamiche piddine).

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E poi c’è lui, Orfini, anima dei Giovani Turchi, (diversamente) renziano, un altro che si è parecchio scazzottato con il premier prima di una conversione sulla via di Rignano. Nelle fasi di critica più acuta, l’attuale presidente del Pd - che aveva già rotto con D’Alema ma ancora non aveva trovato l’intesa con Renzi - osservò che “il ghostwriter di Renzi è il D’Alema di vent’anni fa. A occhio il conservatore è lui. Con l’aggravante che conserva un modello già fallito”. I due, insomma, si detestano cordialmente ma pure un po’ si assomigliano. E non è detto che Orfini resti a lungo nelle grazie del premier (c’è anche chi dice che ormai non lo sia più).

 

A settembre, parlando al Corriere della Sera, D’Alema ha detto che “il Pd sta abbandonando molti valori della sinistra, ma non i metodi dello stalinismo. Oggi i trotzkisti da fucilare se il piano quinquennale falliva vengono chiamati ‘gufi’”. Qualche giorno fa, in un’altra intervista al Corriere, è tornato a occuparsi delle vicende renziane, fresco di ricarica Vodafone: “Il Pd è finito in mano a un gruppetto di persone arroganti e autoreferenziali. Dei fondatori non sanno che farsene. Ai capi del Pd non è passato per l’anticamera del cervello di consultarci una volta, in un momento così difficile”. Ora, non sappiamo se quello del giovane D’Alema ai tempi di Alessandro Natta fosse stalinismo o no (arroganza, al Massimo?), ma a fine anni Ottanta i “veri giovani” del Pci rottamarono l’anziano leader con altrettanta fermezza – diciamo – politica. Quando, il 30 aprile 1988, Natta fu colpito da un leggero infarto durante la campagna elettorale, D’Alema aveva già provveduto al ricambio organizzativo grazie al suo ruolo di dirigente: “Nei primi otto mesi riesce a cambiare sessanta tra segretari di federazione e regionali, sostituendoli quasi ovunque con giovani conosciuti quando era segretario della Fgci”, scrive Alberto Rapisarda nel suo libro su D’Alema di metà anni Novanta. E come ricorda Romano nel suo “Compagni di scuola”, D’Alema, dopo l’infarto di Natta, intervenne a Italia Radio per porre per primo il proprio sigillo sulla sostituzione al vertice: “Questo gruppo dirigente non è un surrogato di un gruppo dirigente che è alle sue spalle. E’ un gruppo dirigente reale, in grado di guidare il partito senza tutele”. Che è un po’ quello che oggi direbbe Renzi parlando di “quelli della Leopolda”. “Il take over generazionale – scrive Romano – era perfettamente riuscito nell’arco di nemmeno un anno, al termine di un’operazione veloce e disciplinata. Due raggruppamenti generazionali parimenti coesi si erano affrontati su un terreno congeniale per tutti i contendenti. I trentenni del 1986 avevano sconfitto e neutralizzato i trentenni del 1956, ai quali tributavano l’onore delle armi pur continuando a considerarli una generazione di conformisti priva di qualsiasi carisma”. E Renzi, che di tributi ne fa pochi, prima ha rottamato D’Alema, poi ne ha preso le energie migliori e trasformato la Fondazione ItalianiEuropei nella Fondazione ItalianiBigbang.

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