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I figli, non le unioni. Cosa si nasconde quando si parla del ddl Cirinnà

Il tema centrale della discussione non è tanto se sia giusto oppure no concedere maggiori diritti alle coppie formate da persone dello stesso sesso, ma è se sia lecito oppure no mettere sullo stesso piano, per l’educazione e la crescita dei figli, una famiglia formata da un papà e una mamma e una famiglia formata da due persone dello stesso sesso.
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Il vero tema sono i figli, non sono le unioni. La settimana che si apre, come si sa, è una settimana importante per capire che fine farà la legge sulle unioni civili. E al di là delle possibili e variabilissime maggioranze che si andranno a formare al Senato durante il voto segreto (sospettiamo che ci sia un patto neanche tanto implicito tra Renzi e Alfano per affossare l’articolo 5 del ddl Cirinnà e scaricare su Grillo le responsabilità della bocciatura delle stepchild adoption) il tema centrale della discussione non è tanto se sia giusto oppure no concedere maggiori diritti alle coppie formate da persone dello stesso sesso ma è se sia lecito oppure no mettere sullo stesso piano, per l’educazione e la crescita dei figli, una famiglia formata da un papà e una mamma e una famiglia formata da due persone dello stesso sesso.
 
Il tema sono i figli, non sono le unioni, e il dramma della dialettica sulla legge sulle unioni civili è che le questioni importanti vengono spesso trattate con superficialità, come se i figli fossero solo una parte quasi secondaria di una legge che non vuol far altro, così si dice, “che occuparsi di offrire una semplice cornice legislativa all’amore tra due persone dello stesso sesso”. E’ davvero così? Non è così. L’ipocrisia della legge Cirinnà, come abbiamo scritto più volte su questo giornale, è duplice. Da un lato è quella di non chiamare l’oggetto della legge con il suo vero nome, spacciando per “unioni civili” quelli che, di fatto, sono dei matrimoni tra persone dello stesso sesso (e ha perfettamente ragione il deputato del Pd, Alfredo Bazoli, quando dice che il ddl Cirinnà introduce le nozze tra persone dello stesso sesso e per questo “sarebbe stata meglio una limpida battaglia sul matrimonio da estendere agli omosessuali, una contesa chiara, fuori e dentro il Parlamento, senza arabeschi, più giusta nei confronti dell’opinione pubblica e forse anche più coraggiosa, onesta”).
 
Dall’altro lato, e arriviamo al nocciolo della questione, la seconda grande ipocrisia è quella di sminuire la portata dell’articolo cinque della legge, quello appunto sulla stepchild adoption che consente al figlio di essere adottato dal partner (unito civilmente o sposato) del proprio genitore. I promotori del ddl Cirinnà tendono a circoscrivere la portata del provvedimento sostenendo che è una cialtroneria dire che (a) la stepchild aprirà all’adozione dei figli e che (b) la stepchild aprirà alla maternità surrogata. Nulla naturalmente è scontato, né sul primo né sul secondo punto, e non esiste un automatismo diretto che apra la strada, dopo la stepchild, all’adozione o all’utero in affitto. L’avvocato Mauro Ronco, ordinario di Diritto penale all’Università di Padova e presidente del Centro Studi Rosario Livatino, che ha presentato un appello contro il ddl Cirinnà sottoscritto al momento da 537 tra presidenti emeriti della Corte costituzionale, ha probabilmente ragione quando dice (lo ha detto venerdì al nostro Matteo Matzuzzi) che “l’utero in affitto è una conseguenza necessaria alla regolamentazione para-matrimoniale di persone dello stesso sesso: diventerà un diritto. E d’altronde, se saranno coppie riconosciute, perché mai dovrebbe essere loro vietato di gestire una gravidanza all’esterno, non potendolo fare (nel caso di due mamme o due papà) in modo tradizionale?”.
 
Ma il nodo centrale della questione, per tornare al tema da cui siamo partiti, non è tanto se la legge darà la possibilità a persone dello stesso sesso di utilizzare l’utero in affitto (quello semmai sarebbe un passo successivo, e francamente non si capisce come sia possibile, una volta equiparate le unioni tra persone dello stesso sesso ai matrimoni tra persone di sesso diverso, non equiparare anche tutti i diritti, compreso quello di avere un figlio praticamente a ogni costo) ma è se una legge come la Cirinnà annulli di fatto la differenza tra una famiglia formata da un papà e una mamma e una famiglia formata o da due papà o da due mamme. I sostenitori acritici della legge Cirinnà fanno notare che il ddl è costruito seguendo una giurisprudenza consolidata adottata già in molti paesi del centro Europa, come per esempio la Germania, e chi porta alla luce l’esempio tedesco ricorda che, pur avendo da molti anni la Germania una legge sulla stepchild (2005), in quel paese non esiste ancora per una coppia omosessuale la possibilità di adottare. L’esempio è corretto ma ci racconta solo un lato della storia.
 
[**Video_box_2**]E la storia ci dice invece che le possibilità che una stepchild adoption apra la strada a un’adozione sono tutt’altro che una chimera. Il percorso dell’Austria, da questo punto di vista, è forse quello che fa più al caso nostro. Il 4 luglio del 2013 il Parlamento austriaco approva una legge che regola i diritti delle coppie formate da persone dello stesso sesso. La legge è molto simile al ddl Cirinnà e ci sono anche le stepchild. Diciotto mesi dopo, il 14 gennaio del 2015, la Corte Costituzionale dichiara non conforme alla Costituzione il divieto di adozione di minorenni da parte di coppie dello stesso sesso e il presidente della Corte, Gerhart Holzinger, richiamandosi all’articolo 8 sul diritto a una vita privata e alla famiglia della Convenzione europea dei diritti umani, stabilisce che il diritto all’adozione “deve valere senza discriminazione”, in quanto “non esiste un’obiettiva giustificazione giuridica per una regola fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale”. Ci sarebbero molti altri esempi che si potrebbero fare, di esperienze simili in giro per il mondo, ma la sostanza della questione resta.
 
In ballo con la legge Cirinnà non ci sono solo i diritti che le persone dello stesso sesso chiedono di aver riconosciuti ma ci sono altri diritti, molti dei quali legati al futuro dei figli. Negare che il punto fondamentale sia questo, rifiutarsi di impostare un dibattito limpido e trasparente, è un modo ipocrita di raccontare la verità su una legge che comunque la si pensi cambierà l’idea di famiglia in Italia. E non raccontare la verità, in casi come questi, di solito significa avere qualcosa da nascondere.
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