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La secessione non era un’opinione. Sette anni dopo è peggio

Maurizio Crippa
Dire che il sud d’Italia è la nostra Grecia può essere una fredda (agghiacciante?) comparazione macroeconomica o una efficace sintesi giornalistica. O entrambe le cose. Ma è anche uno scarto linguistico e psicologico degno di nota.
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Dire che il sud d’Italia è la nostra Grecia può essere una fredda (agghiacciante?) comparazione macroeconomica o una efficace sintesi giornalistica. O entrambe le cose. Ma è anche uno scarto linguistico e psicologico degno di nota. Non sono passati molti anni da quando il sud d’Italia era semplicemente “il problema del Mezzogiorno”, e la faglia invalicabile che divideva l’Italia che va e quella che affonda non era il Mediterraneo ma una parola, dannata eppure ineludibile: secessione. Parola a lungo agitata, con più insensatezza che vanità, da Umberto Bossi e della quale oggi neppure Matteo Salvini sa più che farsene. In mezzo c’è stata la Grande crisi, il neocolbertismo imposto dall’emergenza del governo tecnico, la scomparsa politica della “questione settentrionale”. Fatti duri come sassi, ma che non hanno colmato quell’antica faglia, che sta lì, soltanto peggiorata. L’Italia sono (almeno) due. Nel 2008 l’alleanza Berlusconi-Bossi stravinse le elezioni, e sembrò a molti la volta buona per una riforma costituzionale in senso federalista dello stato; per l’adozione dei costi standard della Sanità; per la responsabilizzazione degli enti locali e per un sacco di altre bellurie che il Vento del nord si portava appresso. Ovviamente ci fu anche molta paura, non solo al sud. Temevano davvero “la secessione”. E’ andata come sappiamo. Non diremo né male né bene: diciamo che è stato un disastro grottesco. Lo scrivente – che non ha mai votato Lega, ma ha la ventura di essere padano e certe cose le conosce di pelle – si trovò a scrivere che “la secessione non è un’opinione”. Intendeva dire esattamente questo: che non si tratta(va) di volerla o no, ma che due (almeno) Italie esistevano già nei fatti. Nel pil, nelle infrastrutture, nel reddito pro capite, nelle università. Negli usi e costumi della cittadinanza. Nella cultura sociale. Persino (prendiamoci il rischio di dirlo) nella politica.

 

Era il 2008. Il Rapporto Svimez 2015 usa parole tremende, che manco Bossi avrebbe immaginato: “Sottosviluppo permanente”. Considera anche il raffronto tra dati del fatidico 2008 e il 2014. Sette anni in cui il sud ha perso il 13 per cento del pil, il doppio del centro-nord, in cui i consumi delle famiglie sono crollati del 13,2 per cento e gli investimenti nell’industria addirittura del 59,3 per cento. Ecco, la secessione nelle cose, non nelle opinioni, era palese allora ed è diventata questo. Per non parlare della demografia, della disoccupazione, di altro. Sia stata la cattiva o cattivissima politica, di destra o di sinistra, è dibattito da fare altrove. Ma vale la pena ricordare che in quel giro d’anni (nel 2009) Renato Brunetta pubblicò un libro, “Sud. Un sogno possibile”, in cui in perfetta controtendenza con il secessionismo verbale e il federalismo immaginario dell’alleato padano suggeriva mosse e ricette per rompere quella “sorta di equilibrio sociale, stabile ma perverso” che è il sud. “Tanti sforzi, tante analisi, tanto meridionalismo hanno portato a un colossale fallimento collettivo. Come è potuto succedere? La risposta amara è: perché l’attuale ‘compromesso meridionale’ ha goduto del consenso generale, tanto a sud quanto a nord”. Brunetta non ce l’ha fatta, nessuno darà la colpa a lui. Perché darla a chi è venuto dopo?

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Si è giustamente notato che sul disastro incidono molto, negativamente, le istituzioni assenti e la Pubblica amministrazione. Il riformato Titolo V della Costituzione ha fatto al sud più danni di quanti (neanche pochi) ne abbia prodotti al nord. Sono eccellenti argomenti, che spiegano tanto della situazione e in alcuni casi hanno anche la capacità di rompere certe retoriche meridionaliste di cui persino Svimez è vittima.

 

[**Video_box_2**]Ma resta il tema della secessione, che non era un’opinione e in sette anni è diventata una realtà ancora più dura. E’ l’economia, sono le istituzioni, ma la spaccatura è anche una questione culturale. Non sono sufficienti gli appelli e i programmi, se non si parte della consapevolezza – che non è un auspicio – che una parte dell’Italia s’è già staccata: nel modo di pensare, di produrre, di innovare, di credere nella mobilità sociale, nell’investimento sull’educazione, nell’uso della cosa pubblica. Il professor Emanuele Felice, sulla Stampa, ha scritto che solo un intervento esterno, dello stato e dell’Europa, può rompere la catena viziosa. E che comunque “i destini delle due metà del paese risultano indissolubilmente legati”. E questo è certo. Ma per ricucirli serve anche la presa d’atto, più che sette anni fa, che una parte del paese se n’è già andata.

 

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