Non si potrebbe pensare che un magistrato che usa la propria carriera per mettersi in politica, o anche solo per fare politica, sia un magistrato che abusa del proprio ruolo e se ne infischia della pa

La verità, vi giuro, sui giudici di sinistra

Piero Tony
Dire che la magistratura è politicizzata non è una provocazione ma è una dura realtà. I responsabili della gogna giudiziaria sono spesso nelle procure. Libro e confessioni choc di un Magistrato democratico

Pubblichiamo un estratto dal libro “Io non posso tacere. Un magistrato contro la gogna giudiziaria. Confessioni di un giudice di sinistra” (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) scritto dall’ex procuratore capo di Prato, Piero Tony, insieme con il direttore del Foglio Claudio Cerasa.


 

 

Mi iscrissi a Magistratura democratica in un pomeriggio dei primi anni Ottanta, quando le correnti parevano serie aggregazioni culturali e non erano ancora diventate, come adesso, il simbolo di ciò che non è più serio nella magistratura. Un tempo, bisogna dirlo, le correnti erano necessarie. Tutti sanno cos’era la magistratura in Italia prima di quel caldissimo luglio del 1964 quando Magistratura Democratica venne costituita. Tutti sanno – credo – che quella dell’apoliticità della magistratura è una pretesa e basta, incompatibile con l’alta politicità di qualsiasi decisione giudiziaria. Tutti continuano a sorridere, dopo quasi un secolo, per ciò che nel lontano 1925 proclamò in Parlamento il guardasigilli Rocco, quello del codice: “La magistratura non deve fare politica […]. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa e antifascista”. Sì, un tempo le correnti erano necessarie. Poi, però, sono degenerate. Da luoghi di elaborazione culturale sono divenute ottusi centri di potere e ora fanno più danno della grandine. Non mi piace generalizzare perché, come sempre, c’è magistrato e magistrato, e ci sono modi diversi di far parte di una corrente e di sentirsi parte di un progetto. Ma è sicuro che un tempo le correnti rappresentavano soprattutto le differenti vene culturali della magistratura in relazione a quelli che allora, nello specifico, erano gli interrogativi di fondo. Giudice notaio o giudice garante? Interpretazione costituzionale o precostituzionale della norma? Attenzione ai fenomeni politici o terzietà olimpica? E così via.

 

Oggi le correnti della magistratura hanno assunto un ruolo diverso e non si può proprio dire che siano lontane dalla compromissione politica. Mi iscrissi a Magistratura Democratica dopo titubanze e tentennamenti durati quasi quindici anni. Avevo poco più di quarant’anni ed ero sicuro, come molti altri, che mi sarebbe stato possibile – e così fu – essere un magistrato di Magistratura Democratica senza essere o apparire meno imparziale. Convinto, come molti altri, che per una persona di sinistra tale iscrizione non potesse avere che un motivo, almeno in via principale: garantismo e uguaglianza nei processi e impegno teso a rendere meno inermi i più svantaggiati. Perché proprio in quegli anni Magistratura Democratica l’aveva finalmente finita con la fissazione della lotta di classe – o almeno aveva avuto qualche piccolo ripensamento alla luce di quanto era successo e stava succedendo – e aveva virato verso quel garantismo di cui mi ero sempre sentito portatore. Farne parte per me significava questo, mettere le mie forze, le nostre forze, al servizio di un progetto più grande. Al centro della nostra funzione doveva esserci l’attenzione alla persona, l’attenzione anche verso chi non era potente, l’attenzione verso tutti quei disagiati che, troppo spesso, restano di fatto indifesi nel circuito giudiziario. E in questa ottica di giustizia ci si proponeva, altresì e di conseguenza, di affinare sempre più gli strumenti investigativi al fine di colpire il “potere invisibile”, i grandi furbi, quelli dei piani superiori abituati a farla franca. Magistratura Democratica voleva essere questo: la richiesta di una giustizia costituzionalmente orientata che assicurasse ai deboli lo stesso rispetto, le stesse attenzioni e le stesse garanzie di solito riservati ai forti. Avendo un po’ in mente le parole di Anatole France: “La legge è uguale per tutti, vieta sia ai ricchi che ai poveri di dormire sotto i ponti”. Ecco, le intenzioni erano davvero buone. Oserei dire… pie. Perché erano i tempi, sottolineo ancora, in cui le correnti venivano intese esclusivamente come luogo di aggregazione tra persone che la pensavano in modo omogeneo e si mettevano insieme per reagire alle forze considerate ingiuste e si confrontavano per far dialogare, far circolare alcune idee, alcuni progetti, alcune visioni del mondo. Ed erano i tempi, per capirci, in cui i ragazzi di sinistra, o almeno molti di loro, sentivano l’urgente bisogno di cambiare la cultura di una magistratura che pareva essere ancora, come durante il fascismo, solo uno strumento di conservazione al servizio dei dominanti, al servizio dell’establishment. Se avevo titubato per quasi quindici anni prima di aderire a Magistratura Democratica una ragione c’era, però. Perché, lo ripeto, dalla sua costituzione e per molto tempo l’ossessione della corrente era stata qualcosa che a me non interessava più di tanto: la lotta di classe di tradizione marxista e basta; magistratura come contropotere e scarsa attenzione alle persone. Qualche accenno su cosa avevamo appena vissuto? Già nel lontano 1969 era avvenuto un passaggio chiave per il mondo di Magistratura Democratica. Una fase di assestamento che coincise con l’arrivo degli anni di piombo, quando l’organizzazione affrontò una scissione interna guidata dal magistrato Adolfo Beria di Argentine. Di Argentine sosteneva che Magistratura Democratica si era legata troppo alla sinistra più estrema e che questa sua nuova natura metteva gli associati in una posizione di non terzietà. L’occasione della rottura arrivò con un piccolo episodio. Il 30 ottobre 1969 Francesco Tolin scrisse sul settimanale “Potere Operaio”, di cui era direttore, un articolo che fece scalpore: un inno alla violenza operaia. Per quel pezzo venne condannato a diciassette mesi di carcere. E il mondo di Magistratura Democratica si divise: la parte moderata difese la sentenza, quella meno moderata riteneva invece inaccettabile punire il direttore di un giornale per un reato di opinione. Alla fine i primi decisero di uscire dall’associazione accusando i colleghi di essere “schiavi dell’ideologia sessantottina “; provarono a dar vita a una vera e propria scissione, ma non ci riuscirono. Due anni dopo, la linea della via politica venne esplicitata in un documento presentato da tre colleghi, Luigi Ferrajoli, Salvatore Senese e Vincenzo Accattatis. Un testo storico, intitolato Per una strategia politica di Magistratura Democratica, in cui si chiedeva esplicitamente di organizzarsi come “componente del movimento di classe”, di dare vita a una “giurisprudenza alternativa che consiste nell’applicare fino alle loro estreme conseguenze i principî eversivi dell’apparato normativo borghese” e di lavorare tutti insieme per avviare una pratica capace di sintetizzare la voglia dei magistrati di fiancheggiare la battaglia politica con gli strumenti della giustizia: “l’interpretazione evolutiva del diritto”. (…)

 

Nei primi anni Ottanta le cose, come ho detto, erano cambiate parecchio. Gli anni di piombo, il periodo durante il quale si passò rapidamente dall’estremismo della dialettica politica e parapolitica al terrorismo, all’eversione, allo stragismo, alla strategia della tensione (ricordo ancora l’impressione procuratami nel 1981 dal film di Margarethe von Trotta che da quella stagione prende il titolo), stavano finendo. Comprensibilmente, nel frattempo, c’era stato l’ampliamento dei poteri delle forze dell’ordine con le leggi Reale del 1975 e Cossiga del 1980, ampliamento suffragato dal trionfante esito del referendum popolare del 1981. Del resto nel 1969 avevamo vissuto la strage di piazza Fontana, nel 1978 l’assassinio di Aldo Moro, nel 1979 quello di Guido Rossa e del mio compagno di lavoro Emilio Alessandrini, tra l’80 e l’81 la strage della stazione centrale di Bologna, l’assassinio di Vittorio Bachelet e dell’altro mio collega Guido Galli e, nel Veneto, l’uccisione del commissario Albanese e del direttore del Petrolchimico di Marghera Sergio Gori e il sequestro del generale americano Dozier, tanto per citare alcuni dei casi più celebri. Inoltre, verosimilmente, Magistratura Democratica si era accorta che l’acceso, spesso inconsulto, qualche volta criminale attivismo sociopolitico di quelle confuse aree di estrema sinistra cui molti facevano riferimento poteva, nel guazzabuglio venutosi a creare, essere pericolosamente oggetto di sospetti, di investigazione e di denunce penali. Ricordo, ad esempio, che nel gennaio 1980 era stata formulata un’interpellanza urgente di Claudio Vitalone (più una ventina di senatori democristiani) al ministro di Grazia e Giustizia per sapere se rispondesse al vero la voce che durante una perquisizione disposta dalla procura di Roma nell’ambito di indagini relative alla morte a Segrate dell’editore Giangiacomo Feltrinelli fosse stato rinvenuto un atto da cui emergevano precisi collegamenti tra organizzazioni eversive e membri di Magistratura Democratica al fine di concertare l’approccio giusto per alcuni processi. Il fascicolo fu archiviato nel 1982, ma solo dopo grande clamore mediatico e pesanti vicissitudini processuali per i magistrati di Magistratura Democratica coinvolti. Altro esempio quello del “processo 7 aprile”. Lo ricordate? È il processo del cosiddetto “teorema Calogero”, per cui, nell’aprile del 1979, finirono in carcere Toni Negri, Emilio Vesce, Oreste Scalzone e altri. Le assoluzioni furono molte. Nel 1982, in “Critica del diritto” numero 23, Luigi Ferrajoli commentò: “Questo processo è un prodotto perverso di tempi perversi. […] E resterà come un sintomo grave e allarmante di arretratezza medievale della cultura giuridica della sinistra che a esso ha dato mano e sostegno”. Sono convinto, come altri, che proprio il “processo 7 aprile” fu l’ultima goccia che fece traboccare un calice di paura e, di conseguenza, fu la causa della svolta di Magistratura Democratica. Resipiscenza? Mah! Di certo era cambiato qualcosa che aveva determinato un mutamento di rotta: non più solo lotta di classe, ma anche, e soprattutto, lotta per le garanzie. Sì, proprio garantismo. Ma il garantismo, ahimè, durò poco. E oggi non faccio fatica a dire che, purtroppo, credo sia estraneo al Dna di Magistratura Democratica. Perché il garantismo attiene alla persona e Magistratura Democratica s’interessa, invece, ai fenomeni, ai determinismi sociologici, alle classi, alle masse. Perché garantismo e sospetti sono tra loro incompatibili e Magistratura Democratica non sa rinunciare ai sospetti, lo si evince dalla storia giudiziaria dei suoi membri. Magistratura Democratica dimentica che non a caso il codice (articolo 116 disp. att. c.p.p.) usa le parole “sospetto di reato”… solo per le autopsie. Ho letto da qualche parte che il povero procuratore della Repubblica di Roma Michele Coiro – uomo probo e mite morto d’infarto nel 1997, e nell’ultimo periodo della sua vita schiacciato dai sospetti che un’inchiesta milanese palesava nei suoi confronti solo sulla base, pare, di una domanda al massimo inopportuna da lui formulata a un collega – usasse dire, pur appartenendo a Magistratura Democratica come i magistrati che lo inquisivano, che “il moralismo di sinistra era venato di sospetti […] la peggiore categoria mentale figlia di Magistratura Democratica”. (…)

 

La situazione di oggi è questa, una magistratura corporativa e politicizzata, vistosamente legata ai centri di potere, che non urla per protestare contro un sistema che l’ha resa inutile, ma anzi continua a opporsi in modo sistematico a qualsiasi progetto di riforma dell’esistente. È probabilmente l’effetto del piccolo cabotaggio delle varie campagne elettorali, attente più agli indubbi privilegi di categoria, compresi quelli economici, che ai modi per sanare un sistema spesso inefficiente. Piccolo cabotaggio che però non impedisce – soprattutto per quell’assenza di complessi sottesa a una politicizzazione così anomala – di agire e pontificare non solo in casa propria, ma in relazione a buona parte dei grandi temi politici nazionali e internazionali senza tema di essere apostrofati con un “taci, cosa c’entri tu?”. È questo che ha portato la giustizia, e non solo Magistratura Democratica, a ritenere di avere una singolare missione socioequitativa realizzabile non con la difesa dei più deboli, ma con l’attacco ai più forti. È come se a un tratto, in mancanza di alternative di governo, una parte della magistratura avesse scelto di perseguire attraverso la via giudiziaria l’applicazione del socialismo reale. Ma così salta tutto. Saltano i confini tra la politica e la magistratura. Salta la distinzione dei ruoli. Oggi è solo tautologia dire che la magistratura è partitizzata, non si tratta di un’opinione, è un dato di fatto. Esistono le correnti. Esistono i magistrati che professano in tutti i modi il loro credo politico. Esistono grandi istituzioni, come il Csm, dove si fa carriera soprattutto per meriti politici. E francamente non riesco a criticare fino in fondo chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. È un dramma, negarlo sarebbe follia.

 

(…) Vogliamo ricordare i tempi di Tangentopoli? Qui c’è un prima e c’è un dopo. Il prima è la fase della contemporaneità, quando noi di Magistratura Democratica abbiamo pensato che finalmente ce l’avevamo fatta, che finalmente la giustizia non era più soltanto uno strumento nelle mani dei potenti e a difesa dei potenti, ma era uno strumento con cui costringere anche i potenti al rispetto della legge. Poi, anni dopo, è divenuto chiaro ciò che realmente era successo: Tangentopoli non è stata soltanto una grande azione di pulizia etica, diciamo così, ma l’occasione in cui, in nome della battaglia contro i potenti, sono emersi i nuovi potenti, i nuovi giacobini, quelli che per la loro un po’ eccessiva e un po’ disinvolta veemenza investigativa costrinsero il legislatore a modificare l’articolo 274 del codice di procedura penale aggiungendo in precisazione una cosa ovvia che dovrebbe marcare il Dna di ogni magistrato imparziale (e informato sul diritto al silenzio notoriamente assicurato all’interrogato dall’articolo 64 del codice di procedura penale): “Le situazioni di concreto e attuale pericolo [di inquinamento probatorio, per capirci] non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti”. Era già accaduto con l’articolo 291 del codice, dove era stato necessario aggiungere che, nella richiesta al gip di misura cautelare, il pm deve presentare “gli elementi su cui la richiesta si fonda nonché tutti gli elementi a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate” (precisazione resa necessaria dall’accertata prassi dei pm, davvero costituzionalmente disorientata, di far conoscere al gip solo gli atti a favore dell’accusa, e che già nel 1999 aveva costretto il legislatore a riformulare addirittura l’articolo 111 della Costituzione in quanto, con sentenza 361/1998, la Corte Costituzionale aveva ritenuto utilizzabili contro l’imputato dichiarazioni da lui rese nel suo procedimento o in procedimenti contro altri – articolo 210 c.p. – al di fuori di ogni qualsiasi contraddittorio). È sempre per le stesse ragioni che alcuni membri del pool di Mani Pulite hanno incrociato la strada della politica. Penso a un magistrato che, dopo quell’esperienza, divenne ministro dei governi Prodi nel 1996 e nel 2006, e alleato del centrosinistra in tutte le elezioni politiche fino al 2008. Penso a un magistrato che nel 2006 fu eletto senatore nella lista dell’Ulivo. E penso a un altro magistrato, quello del “resistere, resistere, resistere”, che scese in campo, diciamo così, per sostenere la candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico. Eccoli i risultati di una politicizzazione spinta: inchieste condotte a furor di popolo in quanto sostenute, a prescindere, dai media e dall’opinione pubblica; magistrati sempre indaffarati, con il cellulare all’orecchio e lo sguardo di chi farà giustizia… e magari nelle frettolose retate viene calpestata ingiustamente qualche vita; trionfo del Cencelli negli organigrammi delle procure; correnti ormai votate più a ottenere riconoscimenti che a dibattere sulle necessità giudiziarie per far crescere una sana cultura di giurisdizione; ascesa di alcuni magistrati – sparuta minoranza, per fortuna – ormai geneticamente modificati dalla convinzione che, spesso, per raggiungere un determinato ruolo conta più chi ti propone di ciò che tu stesso hai fatto per guadagnartelo; magistrati che passano mesi in campagna elettorale, mesi a promettere cose che poi dovranno mantenere quando raggiungeranno un obiettivo.

 

[**Video_box_2**]Allora è ovvio che qualcuno pensi, mettendo insieme i pezzi, che talvolta l’azione della magistratura possa nascondere un fine legato non solo al rispetto della legge, ma anche a un’idea della politica. Attenzione, non mi riferisco a complotti o ad altre ingenuità del genere. Qui si tratta proprio di un problema di metodo, individuale. Non esistono complotti, esistono atteggiamenti, che a volte possono essere più o meno diffusi, e questi atteggiamenti spesso presentano lo stesso problema: la legge non è uguale per tutti, ma è più severa con chi non la pensa come te. Si tratta di accanirsi su una persona, o di utilizzare con questa metodi che non useresti con altri, solo perché ciò ti fa sperare in un ritorno d’immagine. (…) A questo punto mi si chiederà inevitabilmente: il ragionamento vale anche per Berlusconi? Non entro nel merito dei processi, che non conosco, non ho titolo per farlo, ma mi sento di affermare senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto. Anche nel caso Ruby, che in linea teorica avrebbe dovuto essere un ordinario processo di concussione e prostituzione minorile, è evidente che l’ex presidente del Consiglio ha avuto un trattamento speciale (…).

 

Mi rammarico poi di non capire fino in fondo con quale faccia e credibilità, in tutti questi anni, amici e colleghi abbiano non di rado usato la magistratura come un trampolino da cui lanciarsi per entrare in politica o ottenere incarichi utili e di prestigio. Ne ho visti e ne vedo anche oggi: candidati presidenti di regione, presidenti del Senato, ex candidati alla presidenza del Consiglio, candidati sindaci, assessori, ministri. Ma come si fa? Non si capisce che utilizzare la propria dote giudiziaria per fini politici rappresenta un danno di immagine per tutta la magistratura? Non si capisce che, una volta che si diventa di parte, viene considerato, o rischia di essere considerato, di parte tutto quello che si è fatto fino a un attimo prima con la toga sulle spalle? Non si capisce che far diventare di parte anche un solo processo significa dare l’impressione che tutta la magistratura sia di parte? Che mettere la legalità a servizio di una parte politica equivale a dire che chi sta dall’altra non rappresenta la legalità? E non si capisce, infine, una cosa banale, e mi verrebbe da dire drammatica, una questione che, se vogliamo, c’entra, ancora una volta, con la parola legalità. Sia chiaro, non voglio pensare che sussista il delitto di abuso d’ufficio (articolo 323 c.p.) solo perché la Costituzione impone al magistrato indipendenza, imparzialità e soprattutto terzietà (articoli 25, 101, 102, 104, 107, 108, 111), ma per lo spirito – solo lo spirito – di codeste norme non si potrebbe pensare che un magistrato che usa la propria carriera per mettersi in politica, o anche solo per fare politica, sia un magistrato che abusa del proprio ruolo e se ne infischia della parola terzietà? Non puoi essere terzo oggi e schierarti per una parte domani. Non devi farlo e non dovrebbe esserti consentito. Se lo fai, commetti un errore. Hai abusato della visibilità del tuo ufficio, vivaddio, e in questo modo insinuerai nella testa dei cittadini l’idea che il magistrato terzo sia l’eccezione, non la regola. Sì, è davvero un dramma. (…)  Così non va e non è possibile che non si cambi. Lo dico forte della certezza che si tratta di poche mele marce. Forte del fatto che, come me, la stragrande maggioranza dei colleghi ha sempre evitato non solo l’utilizzo della visibilità istituzionale a fini politici, ma qualsiasi rapporto potesse far sospettare la possibilità di un trattamento vantaggioso perché legato alla funzione. Io, per capirci, come quella stragrande maggioranza, l’automobile l’ho sempre comprata da chi non mi conosceva. Ecco. Basterebbe far perdere alle correnti ogni valenza diversa da quella culturale. Basterebbe adottare nuovi criteri per la selezione del personale. Basterebbe premiare i bravi, non i raccomandati. Basterebbe far entrare un po’ di merito nel nostro mondo. Basterebbe far sì che l’appartenenza alle correnti cessasse di essere conveniente, per dirne una, sorteggiando i consiglieri del Csm e non più eleggendoli seguendo la logica del Cencelli dopo più o meno abili campagne elettorali. Basterebbe così poco, ma nessuno lo fa. E di fronte a questa situazione c’è solo da dire: scusate davvero, ma io non ci sto.

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