Kyiv, capitale dell'Ucraina, a sei mesi dall'invasione russa (LaPresse)

Piccola posta

Storia di un volontario, pacifista, radicale e con un biglietto di ritorno in tasca

Adriano Sofri

Pensieri di una persona che ha scelto di vivere un lungo periodo nei luoghi più esposti al conflitto in Ucraina e nelle sue giornate ha aiutato persone che hanno voluto raccontare i motivi della loro personale resistenza 

Odessa, dal nostro inviato. Mi piacerebbe raccontare, o sentir raccontare, la storia di un volontario, o di una volontaria, pacifista radicale. Che è a disagio all’idea di proclamare i propri principii al riparo di un paese illeso, per esempio l’Italia, e ancora meno di lamentare il costo che la guerra d’altri sta infliggendo al suo (illeso) paese. Dunque decide di partire e andare a condividere, sia pure col privilegio di un biglietto di ritorno in tasca, la condizione di chi nella guerra si trova, e ne sta davvero pagando il costo intero. Questa condivisione gli, o le, sembra la premessa morale necessaria ad autorizzare la manifestazione dei suoi principii di radicale opposizione alla guerra, a tutte le guerre, anche alla guerra di difesa, anche alla resistenza armata contro un aggressore, perché la pace è un bene che sovrasta ogni altro argomento.

Occorre, pensa, guadagnarsi il diritto di parola attraverso la condivisione, l’impegno personale, fisico, di solidarietà con chi la guerra la subisce, e ha bisogno di aiuto. L’aiuto materiale è la prima chiave per aprirsi a questa condivisione: non è il fine, l’assistenzialismo, il soccorso, ma la pratica sulla quale costruire il confronto e lo scambio di convinzioni che veramente conta. Non c’è strumentalismo in questo: aiutare è di per sé un valore e una gratificazione non narcisistica. Ma la dedizione alla pace va messa alla prova di chi la pace l’ha di colpo perduta. La presenza fisica e l’aiuto volontario sono il biglietto di presentazione del pacifismo non retorico e non egoistico. 

La persona che fa questa scelta vive poi per un periodo più o meno lungo – ha sempre quel biglietto di ritorno in tasca, ma intanto ha ridotto all’estremo, fino al rischio consapevole di annullarlo, quel privilegio – con i suoi simili del paese battuto dalla guerra, magari in uno dei luoghi più esposti. I suoi giorni sono pieni di cose da fare, le sue notti sono piene di allarmi, riparo nei rifugi, insonnia. Le cose da fare sono coinvolgenti in un modo inaspettato. Si è messa a disposizione l’acqua potabile a persone dai cui rubinetti non esce più l’acqua, qualche volta bisogna accompagnarle perché sono anziane, o invalide, e non ce la fanno a trasportare le loro bottiglie, o abitano a un piano alto. A volte, accompagnate, invitano a entrare in casa, sedere in cucina, prendere il loro caffè fatto alla buona su un fornellino, sentire le loro storie. Le case che hanno perduto, i cari che hanno perduto, la decisione di restare e resistere, la speranza nella solidarietà del mondo, la fiducia nei loro difensori. A volte, i nostri ospiti dicono, sobriamente, cautamente, da quali principii sono stati mossi, in che cosa sperano. Altre volte rinunciano, si dicono che non è il momento o il luogo, che chiedere a quegli interlocutori di mettersi nei propri panni è forse troppo, che è più ragionevole mettersi nei panni loro, mentre raccontano della loro casa perduta nel villaggio bombardato in quella cucina di una casa di città lasciata vuota da altri fuggiaschi. Passano i giorni, passano, più lunghe, le notti, e aiutare diventa sempre più importante, l’acqua, le razioni di cibo, i pacchi per i bambini con una confezione che somigli a un gioco, le medicine, le cucine in cui ascoltare le storie. Viene il momento del ritorno per il nostro volontario, la nostra volontaria.

Ora è come se avessero una doppia vita, e non possono buttarne via una, anche se sono tristi di andare e leggono la tristezza negli occhi dei loro assistiti – non li chiamerebbero così, adesso si sentono un po’ loro gli assistiti. A casa li aspettano, a volte hanno le loro bambine, i loro bambini. Non hanno discusso della pace e della guerra, del valore assoluto della pace, delle cose senza se e senza ma, spesso hanno anche rinunciato a obiettare alle certezze degli ospiti. Però, se il punto era di cambiare le cose e le persone, è successo, a cominciare da loro stessi. Forse, con un rammarico, pensano che c’è qualcosa che i loro ospiti, quelli dalle case bombardate, non possono capire, e comunque non ora. Tornati, forse penseranno che c’è qualcosa che i loro cari, i loro amici, i loro correligionari, per il momento non possono capire. E che in generale c’è, in ogni punto del mondo, in ogni momento della storia, in ogni diversa creatura, qualcosa che non si capisce, che gli altri non capiscono. Per questo è così stupido dire: “senza se e senza ma”. 
Ecco, ho l’impressione di averla appena sentita una storia così. Ma siccome non ne sono sicuro, e non voglio travisare le storie, la lascio com’è, ad aspettare. 

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