Un'immagine di vita quotidiana a Kherson, occupata dai russi dall'inizio dell'invasione (Ansa)

Piccola posta

Quando il numero delle vittime di guerra sarà rilevante per porre la parola fine?

Adriano Sofri

Forse i contendenti sono indifferenti alla statistica: i russi perché muovono le loro truppe come carne da cannone; gli ucraini perché sentono che la loro causa giustifica il sacrificio e anzi lo consacra

Ci sono discussioni che è meglio non aprire? Due giorni fa Zelensky, rivolto ai cittadini russi, ha aggiornato il conto ufficiale di parte ucraina dei soldati russi morti: “circa” 40.000. Ieri erano 40.070, ora chissà. La cifra tonda, 40 mila, rende meglio l’idea. L’idea è ancora quella della sentenza attribuita, molto incertamente, a Stalin, che una singola morte è una tragedia, un milione di morti è una statistica. Anche 40 mila morti sono una statistica.

Com’è noto, sono cifre inattendibili, che si dilatano e restringono come un soffietto secondo l’origine, o secondo l’indole più o meno sobria dei portavoce. La Cia sembrava attestarsi sui 15 mila pochi giorni fa, e fino a 45 mila feriti. Ieri fonti di congressisti Usa alzavano ancora il numero. Ma, come succede appunto quando ci si misura con una cifra, e dal mucchio non viene fuori una faccia, uno sguardo, un nome, una maglietta rossa, i numeri non fanno una grande differenza: il risultato è comunque fissato, ed è quello di una carneficina. Da ambedue le parti, da quella dei civili ucraini uccisi, più di 5 mila, e dei militari, probabilmente meno numerosi dei russi ma tanti. Innumerevoli, per così dire, gli uni e gli altri. 

Quella cifra provvisoria – 40.000, in appena cinque mesi – qualche giornale non l’ha riportata, qualche altro sì, con un titoletto e poche righe neutre. L’interrogativo che forse è meglio non aprire è un altro. Come si reagisce alla cifra, oltre che inorridendo, o anestetizzando (“è certo un’esagerazione, saranno certo di meno”), o semplicemente passando oltre? Il numero dei caduti, militari e civili – quanto all’aggressore pressoché solo militari – è, o comunque sarà, uno dei fattori che decideranno della interruzione o della fine della guerra, e del suo esito? Chi si augura che le forze d’invasione russe siano fermate e anzi costrette a retrocedere, si compiacerà della crescita del numero sul contatore? C’è un numero limite che segnerà il finale di partita? E com’è scomposto: quanti buriati per un daghestano, e quanti daghestani per un russo, e quanti russi della campagna per uno di Mosca o di San Pietroburgo? 

Forse interrogarsi è inutile. Forse i contendenti sono indifferenti alla statistica: gli uni, gli invasori, perché muovono le loro truppe, soldati siberiani e caucasici e mercenari internazionali, come carne da cannone, come sempre; gli altri, i difensori, perché sentono che la loro causa giustifica il sacrificio e anzi lo consacra. Gli americani ci misero più di dieci anni e 60 mila morti ad averne abbastanza – i nordvietnamiti civili e militari morirono in più di 3 milioni. 

In Bosnia e Herzegovina, nei 3 anni e mezzo di cosiddetta guerra, morirono in 94 mila: 64 mila bosniaci, 24 mila serbi... 320 militari delle forze Onu. 

Forse, anche in Ucraina, si può guardare il contatore che continua a girare così velocemente, ripetersi che è una carneficina, estrarre dal mucchio qualche faccia, qualche bambina col cappottino rosso, e non affidare al punteggio progressivo alcun valore, quanto all’esito. 

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