Il fiume Dnieper (via Wikimedia)

Piccola posta

Passeggiata sul fiume Dnieper

Adriano Sofri

Nell'assenza di una parola che significhi "distruttore di ponti" c'è tutta l'ipocrisia delle pratiche di guerra sui corsi d'acqua

Scrivo da Dnipro (l’accento sull’ultima), nome della città e del fiume che la attraversa, che noi chiamiamo Dnieper. Avevo almeno tre ragioni per spingermi qua, e intanto ne cito una: vedere il Dnieper. Quando ero bambino, e la geografia era ancora illesa – poi ci furono tentativi di farla inghiottire dalla storia, cui incautamente partecipai, poi di fare inghiottire ambedue dalla geopolitica, cui fieramente mi oppongo – e l’insegnamento era ancora nozionistico, si aveva molta cura di far imparare il nome dei due fiumi appaiati, il Dniester e il Dnieper. Ora l’ho visto, e poco fa avevo visto anche il Dniester, Dnistro, quest’ultimo alla foce. Odessa sta in mezzo alle due foci, e vicino anche a quella del Danubio.

 

Il 3 febbraio, Ezio Mauro (attraverso lui saluto il suo antenato) aveva scritto del Dnepr delle leggende, dell’epica e della storia storta da Putin al servizio della sua annessione: “Il Dnepr più di tutti ha un ruolo sacro, un segreto mistico, un compito religioso”. (Ma è il Dnieper di Kiev, quello della Rus’). “O Dnepr, figlio di Slovuta!... Bagnerò nella tua acqua la mia manica di seta e al principe tergerò le sanguinose ferite sul suo corpo possente”. Si poteva ancora evocare la bellezza feroce delle saghe: ventuno giorni dopo, il sangue e la seta si sono separate irreparabilmente.

 

Ho camminato lungo il fiume, imponente, e senza segno apparente di siccità. I fiumi sono prediletti dai maniaci di confini e di guerre. Dai distruttori di ponti. Se non sbaglio, non esiste il nome contrario di pontefice, costruttore di ponti: un’assenza rivelatrice dell’ipocrisia di fondo degli umani, perché la distruzione dei ponti è sempre stata un’attività di richiamo, e imperversa oggi in Ucraina. La faccia di successo del Genio militarizzato. 

 

Il Ponte Nuovo (o Centrale, 1966) di Dnipro che ho di fronte ha, a occhio e croce, almeno quaranta file di pilastri a tenerlo su: ne bastano una o due a buttarlo giù. Che idea, direte. Ora sono seduto in piazza Eroi di Maidan, bevo la mia spremuta, ascolto le sirene – più forti, qui, ma la stessa noncuranza delle persone – e leggo una versione della poesia di Taras Schevchenko (1814-1861) sul “Dnipro possente”: 

 

I galli non cantano per svegliare il mattino,
Non c’è ancora un suono dell’uomo,
I gufi nelle radure chiamano i loro avvertimenti,
E i frassini scricchiolano e scricchiolano ancora.

Di più su questi argomenti: