Mattarella e il presidente sloveno a Pahor a Basovizza (Ansa) 

piccola posta

Una notte, a Trieste, la cena inconsapevole con Ace Mermolja, poeta sublime

Adriano Sofri

Equivoci alla presentazione del libro “L’organizzazione antifascista Borba, 1927-1930”, dello storico triestino sloveno Milan Pahor, dedicato all’altro monumento di Basovizza davanti al quale Mattarella e il presidente sloveno Pahor si tennero per mano

Venerdì sera, a Trieste. È appena finita la presentazione della versione italiana del libro “L’organizzazione antifascista Borba, 1927-1930”, dello storico triestino sloveno Milan Pahor, dedicato all’altro monumento di Basovizza davanti al quale i due presidenti si tennero per mano. L’edizione è la gloriosa ZTT-EST, l’editore è un poeta, Ace Mermolja. È un uomo grande, in forma, andiamo insieme verso una trattoria. Sono cauto, come chi cammina accanto a un poeta di cui non ha ancora letto le poesie. A un tratto mi chiede: “Sei asmatico?”. In effetti, lo sono. Mi viene un dubbio: lui non è Mermolja, ora mi ricordo che nel pomeriggio Milan mi aveva parlato di qualcuno che era stato il suo medico e di una sua figlia che riesce brillantemente, deve trattarsi di lui, con tanta gente e tante mascherine avrò fatto confusione. Vedo di riprendere il filo, chiedo al mio accompagnatore come sta sua figlia. Bene, dice, un po’ affaticata dal superlavoro, con la pandemia, è medico a Lubiana. Una famiglia di medici dunque. A cena, siamo cinque, gli infliggo un po’ di notizie sulle mie vicissitudini cliniche, come si fa quando si incontra un medico fuori servizio: mostra un’attenzione gentile ma moderata. La serata è comunque ottima. Ma mi è rimasto un dubbio, e in albergo, fra i libri ricevuti in regalo e il consulto con Google Immagini, appuro che era proprio Ace Mermolja, illustre poeta, studioso slavista, è stato anche un famoso giornalista, è nato a Lubiana nel 1951 – non lo dimostra – e non è mai stato medico. Dev’essersi chiesto se fossi suonato.

Probabilmente sì, infatti, e certamente sono insonne, così leggo un suo libro di poesie, “Tweet dell’anima”, nella traduzione italiana molto bella di Daria Betocchi e il testo sloveno a fronte. Sono bellissime, mi colpisce soprattutto un poemetto intitolato “Domovina”, “Patria”, è lungo, ne cito alcuni versi: “… speranze / e delitti che, come un bozzagro rapace, / ogni esercito cova: altre uova di morte. / Lo stesso esercito che, giunto dalla Bosnia / attraverso la Croazia e la Slovenia, / sferrata sul Carso una folle offensiva / da Opicina si riversò su Trieste come un torrente / cantando con la stella rossa in testa / Trst je naš! Tre quarti di città / attanagliò una morsa di gelido terrore. / Gli sloveni inneggiavano alla libertà. / Trascorsa qualche settimana, la libertà / se ne andò, e un altro tavolo accolse / diplomatici nerovestiti. / Lo sloveno restato al di qua del confine, / ebbe in fardello un orribile sfregio: / il sipario calò fra terre e persone, / e coprì una vicinanza intessuta di comuni / spoglie e battaglie, dolore e desiderio / di una nuova vita: / che nel bivacco di anime perse / sùbita sfumò. / A noi sono rimaste le rovine e le gabbie che / ordisce la guerra imprigionandovi i cuori. / Tre quarti di città non ha scordato la / gelida morsa, i carsici abissi / e quei morti. Per gli sloveni, la speranza / dileguò con l’armata che mai cesserà di partire: / a lungo cova l’ingrato retaggio, / trasmigra di morte in morte, / di generazione in generazione. / La rabbia è come una zecca nell’erba: / dopo anni di fame, fiuta una preda, / e nell’intatto sangue inietta veleno. / Così si ridesta il rancore a ogni / squillo di stolida fanfara, / e dopo la burrasca, / chiunque s’impegni a tender la mano, / ci perde un paio di dita. / La trappola della memoria funziona così. / A chi in quel malefico cerchio / non dimorava più, / il tempo ha deterso le piaghe; noialtri, / ancora biascichiamo la storia / come una gomma scipita”.

Ecco. E io gli ho comminato informazioni sul mio presofferto ospedaliero. Ricostruisco la serata, c’era stata un’impennata quando ci siamo infervorati attorno alla dimensione dei sardoni, che a me parevano sardine, ma anche qui giocavo fuori casa e ho perso. Ho sorriso, a tarda notte, quando ho letto “kot sardine”, come sardine: ma erano versi amarissimi. “Profughi che vogliono salire, / ma nella luce di perla nere pattuglie, acquattate / ai margini del quadro, con scuri mozzano / le dita che cadono in mare / come sardine nella silente profondità, / vacuità, / uccisione d’ogni pietà”. 

La prossima volta farò meglio.

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