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piccola posta

L'insopportabile equivoco di chi paragona Gaza e la Shoa

Adriano Sofri

Già in Israele, la denuncia di un uso strumentale della Shoa è stata presente e combattiva. Per questo dobbiamo essere i primi a non commettere l'errore di chiamare gli israeliani "nuovi nazisti". Uno slogan oggi abusato

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E adesso? Quanto conto fanno i governi israeliani dei sentimenti del mondo? Succede che li ignorino per la convenienza di prendere in ostaggio alleati oltranzisti, ed esserne presi (quanto ha pesato sugli eventi in corso la sortita di Trump su Gerusalemme capitale “unica e indivisibile”?). Si deve ribadire la cosa più importante: Israele non è il suo governo. Ma la raccomandazione, difficile com’era, è diventata più ardua da quando bisogna spiegare che Israele non è il governo di Netanyahu, non è Netanyahu. Il mondo intanto cambia. Dichiara che le vite dei neri contano, e c’è un piccolo e inevitabile passo da lì alla dichiarazione che le vite dei palestinesi contano. Soprattutto, arrivano nuove generazioni, che non sanno la storia dell’altroieri. La storia della Shoah. Oppure, giovanissimi e giovani ebrei, la sanno bene, ne fanno la propria ragione, e la rivendicano contro Israele con una doppia innocenza, di eredi e di non compromessi.

Quando si scrive “israelopalestinese”, aggettivo di “questione” o “guerra” eccetera, ci si chiede se separare le due parti almeno con un trattino, israelo-palestinese, o lasciarle attaccate, a sottolineare un groviglio divenuto insolubile e disperato. O anche, in fondo, per chi voglia credere che nell’abisso stia la salvezza, ad ammonire che non c’è salvezza degli uni senza quella degli altri. Nella marea di reazioni cui i media sociali offrono una vetrina, colpisce il ritorno inesorabile di luoghi comuni che non erano mai stati superati, ma ravvivati ora dall’avvento di una nuova generazione che li maneggia come una propria scoperta e se ne scandalizza. Questo riguarda specialmente il luogo comune degli israeliani come i nuovi nazisti, “proprio loro”. In buona o malafede, e più penosamente nel primo caso, si rinfaccia “agli israeliani”, quando non “agli ebrei”, di rinnegare se stessi, di ritorcere la persecuzione. Sempre, chi impiegava quell’argomento “forte”, si convinceva di incarnare la voce più nobile dell’ebraismo, pur non appartenendogli. “Proprio voi, che avete subito la Shoah, ora vi comportate come i nazisti”. I moltissimi che vi ricorrevano commettevano un errore di fatto e uno morale. Di fatto, il paragone fra Gaza e la Shoah era così smisurato da anestetizzare, piuttosto che far risaltare la sofferenza. Di più, chi accusava gli israeliani di essere i nuovi nazisti faceva della Shoah un proprio titolo morale. Certo, i discendenti delle vittime della Shoah non possono invocarla a giustificazione di crimini di oggi; ma tanto meno i discendenti degli autori della Shoah o di chi la secondò o non la ostacolò, o comunque le restò indifferente, possono sentenziare in suo nome. 

In Israele e nella diaspora, la denuncia di un abuso della Shoah è stata del resto presente e combattiva. Ma vorrei dire che il vecchio argomento riscoperto negli slogan di oggi, ancora più scandalizzato e semplificato – una stella di David e una croce uncinata – si porta dietro implicazioni e conseguenze diverse e più gravi. Perché nel frattempo, dalla caduta del Muro di Berlino in poi, la Shoah aveva sempre più soppiantato la guerra nella motivazione dell’Europa e dei suoi valori – del suo “mai più”. Era avvenuto tardi, ma era avvenuto. Ed era coinciso con l’indebolimento degli altri valori fondativi, l’antifascismo – fino a che punto, lo mostrano le cronache dei gradimenti partitici italiani – e il ripudio della guerra, umiliato da vicende come la ex-Jugoslavia. Del passato, si era finto a lungo che i popoli fossero stati costretti all’obbedienza, che il fascismo fosse stato buono fino alla guerra al fianco dei tedeschi e che l’italiano fosse stato brava gente, si erano ignorati l’adesione sentita al razzismo di frontiera e colonialista e l’adesione larga al razzismo antisemita a fini di esaltazione fanatica e di carriere e, più largamente, a scopi di lucro. A Norimberga, con la Germania colpevole pressoché unica, si era simbolicamente denazificata l’intera Europa. Grazie alle selezionate condanne di Norimberga si era potuto assolvere all’ingrosso in Italia e altrove. Poi l’Europa dopo il crollo del muro, della memoria, del “mai più Auschwitz”, aveva riscoperto per contrappasso alla propria memoria colpevole il debito verso Israele, la parte di sé perseguitata, rinnegata ed espulsa: l’Europa fuori dall’Europa. 

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Oggi, la Shoah viene evocata contro Israele da chi vi vede solo una sopraffazione, una mera esportazione della violenza con le vittime mutate in carnefici, dopo averne appreso la lezione. Da chi – non penso ai farabutti che sanno quello che fanno – guarda a quello che avviene in Israele e Palestina come alla Shoah che si ripeta sotto i suoi occhi. La storia distingue una graduatoria negli scandali, nello scandalo, ed è già difficilissimo: la cronaca no. E il passo incombente è nella retrocessione, nell’insinuazione che la brutalità dell’Israele di oggi contagi l’ebraismo di ieri. E faccia dello sterminio tutt’al più un eccesso della diffidenza e della punizione che “gli ebrei” si erano meritati. 

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La “questione israelopalestinese” si porta dietro intera la questione internazionale dell’antisemitismo e, specularmente, dell’islam politico. Troppo comunque, e grottescamente troppo se commisurato alla smania di Bibi Netanyahu di tenersi in sella, e alla larga dai suoi tribunali.

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